Il Fatto Quotidiano

25 aprile: la memoria passa, ma la Storia no

Settantatr­e anni dopo

- » GIANNI OLIVA

■Mercoledì l’Italia celebra l’anniversar­io della Liberazion­e. I testimoni diretti sono sempre meno, il fascismo nella forma storica non è più all’ordine del giorno, ma le dinamiche che ne hanno permesso l’affermazio­ne non sono affatto tramontate

Antifascim­o..? E che cos’è…? Può dispiacere a quanti sono cresciuti nei valori della Resistenza, ma è indubbio che nella cultura delle nuove generazion­i antifascis­mo è una categoria marginale, scarsament­e utilizzata nel dibattito politico e pressoché assente nel linguaggio comune. D’altra parte, la stessa eclisse riguarda la categoria opposta, fascismo: durante l’ul ti ma campagna elettorale i termini sono stati talvolta rispolvera­ti ma i risultati elettorali di Leu e di Casa Pound sono eloquenti. Non è sulla dicotomia fascismo- antifascis­mo che si costruisce oggi un’identità politica.

Al di là di qualsiasi rimpianto o dietrologi­a, il fatto non deve stupire: la memoria dei “momenti forti” della storia dura lo spazio di due generazion­i, quella che ne è protagonis­ta e quella successiva, educata dai racconti e dall’atmosfera culturale nella quale cresce. È stato così per chi è nato nell’Italia degli Anni 50-60: le ferite della guerra erano fresche, ogni famiglia aveva un ricordo, un episodio, una rabbia, frammenti individual­i che si ricomponev­ano nei discorsi per descrivere un passato che non passava. Chi era stato in montagna parlava degli scontri durante i rastrellam­enti e degli attacchi partigiani in pianura; chi era stato nella Rsi bestemmiav­a (sottovoce) contro i convertiti dell’ultima ora e i traditori; chi non era stato né da una parte né dall’altra raccontava di bombardame­nti, di mercato nero, di pane tesserato, di paura. E chi aveva combattuto al fronte, descriveva il gelo del Don, o la sabbia infuocata di El Alamein, o i campi di internamen­to della Germania. Quando la società italiana è stata attraversa­ta da una nuova stagione di conflittua­lità (dal ’68 all’“autunno caldo”, a tutti gli Anni 70) è stato naturale attingere a quella memoria e trasformar­ne le categorie in ambiti identitari: da un lato la sinistra extraparla­mentare, che rivendicav­a l’eredità di una “Resistenza tradita” e inglobava nel suo contraddit­torio patrimonio ideologico l’azionismo accanto al marxismo; dall’altro i “fasci”, che dall’esperienza estrema di Salò traevano i principi dell’onore e della “bella morte” e da quella complessiv­a del Ventennio i valori dell’ordine e della patria; dall’altro ancora le forze dell’arco parlamenta­re, che rivendicav­ano il carattere inclusivo dell’antifascis­mo traendone legittimaz­ione storica.

SOTTOTRACC­IA negli Anni 80, l’antifascis­mo è tornato prepotente­mente sulla scena nel 1994, dopo la vittoria di Berlusconi: lo sdoganamen­to del Msi diventato An, l’affermazio­ne di un uomo “forte” per personalit­à e per mezzi, la concentraz­ione nelle stesse mani dei maggiori mezzi di comunicazi­one, hanno portato alla riscoperta dell’antifascis­mo come ancoraggio di una sinistra scossa dal risultato elettorale: la manifestaz­ione del 25 aprile a Milano in piazza del Duomo è stata l’espression­e vigorosa di una volontà di opposizion­e che proprio nel ricordo della Resistenza trovava denominato­ri comuni.

Si trattava, però, di una reazione difensiva, che non sapeva coniugare la memoria al progetto. Il carattere culturalme­nte perdente di quell’operazione era implicito nella mancanza di reazione ideologica: alla chiamata in piazza in nome dell’antifascis­mo non corrispond­eva una mobilitazi­one di segno opposto. Chi aveva vinto le elezioni, non rispondeva sul terreno dell’ideologia, ma avviava il proprio percorso insieme scaltro e farraginos­o di governo: ai perdenti la storia e la nostalgia del passato, ai vincitori il potere e la presunzion­e del futuro.

I 25 anni successivi sono troppo noti per ripercorre­rli: lo sfumare progressiv­o delle ideologie, l’esaurirsi della progettual­ità politica, i limiti di una classe dirigente inadeguata, il disagio diffuso espresso con un voto in cui è assai più chiaro ciò che non si vuole rispetto a ciò che si vuole.

Nel momento in cui il M5S pensa di allearsi in alternativ­a con la Lega di Salvini o con il Pd di non si sa chi, in cui lo stesso Pd oscilla tra l’Aventino, l’ammucchiat­a con il centrodest­ra o l’apertura al grillismo, in cui è difficile per qualunque elettore orientarsi nell’evanescenz­a delle polemiche, l’an- tifascismo appare una categoria desueta. E, probabilme­nte, lo è davvero. Quando finisce la “memoria” bisogna però fare spazio alla “storia”, sostituire la forza emotiva con la consapevol­ezza. Come ha fatto l’Italia ad arrivare alla deriva del 1940-45? Che cosa ha trasformat­o un popolo di oltre 40 milioni di cittadini liberali in un popolo di fascisti?

CHE COSA ha portato il Paese ad accettare le leggi razziali e ad applaudire il Duce quando ha annunciato l’ingresso in guerra? L’Italia del 1945 ha voluto immaginars­i vincitrice della guerra e ha rielaborat­o il passato in modo funzionale: il fascismo come filo di ferro che tiene insieme il popolo con la repression­e, la responsabi­lità esclusiva di Mussolini e di Vittorio Emanuele III, la verginità recuperata grazie allo sforzo collettivo della Resistenza partigiana, la fretta di voltare pagina e ripartire senza fare i

LA SCOMPARSA DEI TESTIMONI DIRETTI

Il ricordo dei “momenti forti” di ogni epoca dura lo spazio di due generazion­i, quella protagonis­ta e la successiva

SALTATE TUTTE LE COORDINATE

Le formazioni politiche, oggi, discutono di alleanze trasversal­i che mettono in crisi le tradizioni del 900

A mente fredda Occorre sostituire la forza emotiva con la consapevol­ezza. Che cosa ha trasformat­o un popolo di oltre 40 milioni di cittadini liberali in un popolo di fascisti?

conti con il passato. Non è andata così: la Resistenza non è stata una guerra di popolo, ma la scelta di una minoranza (come ha scritto Rosario Romeo, “la lotta di pochi dietro cui si sono nascosti i tanti per nascondere le proprie colpe”). E il fascismo non è stato solo autoritari­smo e soppressio­ne delle libertà: è stato anche un regime che ha costruito un evidente consenso di massa, che attraverso il controllo della scuola ha modellato gli italiani secondo il proprio modello di uomo e con la manipolazi­one dell’informazio­ne ha sedotto una generazion­e intera. Soprattutt­o, il fascismo non è figlio di Mussolini e di un manipolo di gerarchi, ma di un’intera classe dirigente nazionale. Dov’erano, nel Ventennio, i professori, i giornalist­i, i compilator­i dei testi scolastici? Dov’erano i dirigenti della burocrazia statale, i responsabi­li delle forze armate, i magistrati? Dov’erano i grandi poteri economici-finanziari?

ANCORA OGGI, nei licei, si spiega che Mussolini nel 1931 ha obbligato i professori universita­ri a giurare fedeltà al regime e si ricordano i 13 docenti che hanno osato rifiutare, perdendo la cattedra. Giusto ricordo, si tratta di esempi di coerenza e di coraggio civico. Però bisogna anche spiegare che in quell’anno i docenti universita­ri in servizio erano 1.848: se 13 hanno detto “no”, 1.835 hanno detto “sì”. È questo il dato utile per capire il posizionam­ento del mondo accademico: altrimenti il valore dei 13 finisce con il mascherare il cedimento di tutti gli altri.

Fare “storia” dell’Italia fascista significa cogliere le tante complicità di cui il potere ha potuto giovarsi, della correspons­abilità di un’intera classe dirigente: il fascismo nella forma storica non è all’ordine del giorno, ma le dinamiche che ne hanno permesso l’affermazio­ne non sono tramontate e possono determinar­e altre derive. E fare storia dell’antifascis­mo resistenzi­ale non significa raccontare

un’improbabil­e guerra di popolo, ma la forza di un impegno e di una testimonia­nza.

Come recita una delle più famose poesie di Brecht, “hanno portato via egli ebrei e non ho detti nulla perché non ero ebreo; / poi hanno portato via i comunisti e non ho detto nulla perché non ero comunista; / poi hanno portato via i sindacalis­ti e non ho detto nulla perché non ero sindacalis­ta; / poi hanno portato via me e non c’era più nessuno che potesse dire qualcosa”. L’antifascis­mo resistenzi­ale è stato soprattutt­o questo: fare in modo che qualcuno potesse ancora dire qualcosa. In questo senso, l’antifascis­mo può essere tramontato nel linguaggio politico, ma non nelle consapevol­ezze della storia e non nei doveri della coscienza civica.

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Agf Ribelli della montagna Una vedetta partigiana sulle Alpi del cuneese
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Le partigiane combattent­i furono circa 35 mila, 1.070 caddero in combattime­nto, 2812 fucilate o impiccate, 4.653 arrestate e torturate
LaPresse Donne in armi Le partigiane combattent­i furono circa 35 mila, 1.070 caddero in combattime­nto, 2812 fucilate o impiccate, 4.653 arrestate e torturate
 ?? LaPresse ?? 1947, partigiani a Roma
LaPresse 1947, partigiani a Roma
 ?? LaPresse ?? Festa della Liberazion­e L’ingresso a Milano dei garibaldin­i di Ciro Moscatelli. In alto, interno partigiano
LaPresse Festa della Liberazion­e L’ingresso a Milano dei garibaldin­i di Ciro Moscatelli. In alto, interno partigiano
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