TRATTATIVA, LO STATO ORA NON HA SCUSE
In un (fortunatamente breve) periodo buio e turbolento della storia costituzionale inglese, tra il XVI e il XVII secolo, il giurista Edward Coke, presidente del più alto organo giurisdizionale del tempo, la King’s Bench, fu destituito dalla carica per una congiura di Palazzo ordita dal suo arcinemico, il Cancelliere del Re, Lord Ellesmere. Questi rimproverava al primo, su istigazione reale, di aver contrastato con la sua coraggiosa opera di difesa dell’indipendenza dell’ordine giudiziario dalle sovrane interferenze, l’idea, dominante, secondo cui “rex est lex” affermando l’opposto principio per il quale “The King is not above the law”, ossia quello – poi posto dal padre del costituzionalismo inglese, Albert Venn Dicey, a fondamento della teoria della rule of law – del pari assoggettamento alla legge di tutti i cittadini, indipendentemente dal rango istituzionale o dalla titolarità di funzioni o poteri pubblici.
LA LEZIONE DI COKE, letta nella sua traduzione attuale equivale a dire che la soggezione alla legge non si esprime solo mediante la regola della eguaglianza individuale, ma implica come necessario postulato quello della sottoposizione a giudizio, al fine dell’insopprimibile controllo di legalità, dell’operato, sia a livello soggettivo che delle organizzazioni istituzionali, dei poteri statali. E ciò nel preciso senso dell’inconfigurabilità perfino teorica di aree di immunità, individuale o collettiva, che valgano a preservare gli autori di condotte antigiuridiche dal rischio dell’affermazione di ogni possibile forma di responsabilità. L’ulteriore corollario di questa architettura di equilibrio tra poteri statali è quello, ancora oggi incrollabile nell’esperienza giuridica inglese (come dimostra la sentenza del gennaio 2017 della Supreme Court che ha dichiarato illegittimo il tentativo del primo ministro Theresa May di sottrarre al voto parlamentare il disegno di legge governativo abrogativo della legge del 1972 prevedente l’ingresso del Regno Unito nell ’ allora Comunità europea), che esclude dal circuito delle possibilità giuridicamente praticabili l’ipotesi della “ragion di Stato” come esimente non solo da qualsivoglia forma di responsabilità ma perfino dalla verifica della sua concreta ricorrenza attraverso le ineliminabili attività d’indagine. E infatti, nessuna ragione politica può prevalere su quella giuridica, consistente nel primato della legge e nell’intimo significato effettuale di tale principio identificabile nell’eguaglianza, senza discriminazioni discendenti dall’esercizio di poteri pubblici, di ogni appar- tenente alla comunità nazionale.
Di certo la Costituzione italiana né è rimasta insensibile all’insegnamento del common law, né ha mancato di esplicitare in forma precettiva il principio dell’eguaglianza sociale e individuale come presidio della Repubblica.
È altrettanto certo, tuttavia, che specifiche, contingenti e spesso manifeste contraddizioni a questa base fondativa del senso stesso di “corpo sociale” abbiano talvolta preso il sopravvento, pretendendo di imporsi sulla rule of law: il mantello di copertura è stato proprio quello della “ragion di Stato”, indicibile nel suo oggetto e imperscrutabile (o, forse, fin troppo facilmente intellegibile) nei suoi reconditi fini, tracce e sintomi dei quali potrebbero fortuitamente trovare testimonianza nell’improba opera di utili scrivani. La recente reinterpretazione dell’epistolario di Aldo Moro durante la cattività, e la irriducibile opposizione della maggioranza politica del tempo a salvarne la vita pur di salvare se stessa dall’incombente estinzione, dimostrano come la tecnica di insignirsi del fregio di custodi di quella ragione da parte dei detentori di cariche pubbliche sia quasi connaturale alla prepotente conservazione del potere.
La sentenza della Corte d’Assise di Palermo dei giorni scorsi, conseguente, e confermativa di un atto di accusa raccolto attorno all’idea che lo Stato possa, mercè l’opera di suoi sleali rappresentanti, cercare di fagocitare se stesso (proiettandosi nella medesi- ma vicenda come carnefice e vittima al tempo stesso, ossia attentando alla propria integrità e contestualmente patendone gli effetti), pretendendo l’esonero dalle conseguenze prodotte dall’accertamento processuale costituisce l’incarnazione coraggiosa della dottrina di Coke e rinfranca tutti i cittadini italiani, soprattutto i più giovani, circa la realizzabilità del desiderio di una nuova stagione dell’amministrazione del potere pubblico solo obbediente alla legge, al bene comune e del tutto indifferente agli interessi e ai profitti spregiudicati e insaziabili di singoli o di gruppi d’impresa o consorziati per la per l’osservanza di giuramenti inviolabili.
PARTE ESSENZIALE di questa stagione, in cui auspicabilmente cammineranno mano nella mano aspirazione alla conoscenza piena della verità circa la storia italiana dell’ultimo quarto di secolo e protensione della magistratura ad assecondarla, non può che essere la ripulsa della deleteria nozione che vuole in ogni caso tutelate e immuni le condotte singole o riferibili a interi apparati statali poste in essere a difesa di un preteso interesse collettivo, insondabile, incontrollabile, unilateralmente determinato, inaccessibile ai cittadini. E allora, onore a tutte le persone intemerate e indipendenti che, esercitando rischiosamente nel tempo distinti Uffici, hanno, a dispetto delle contrarie opinioni di sacerdoti e vestali della res publica contribuito a scrivere questa illustre pagina di democrazia del diritto: non meritano isolamento ma tributo di riconoscenza.
Da questi valori ideali la temperie politica che sta per aprirsi e i suoi nuovi protagonisti non dovranno mai prescindere poiché dovranno assumere il passato come viatico del futuro.