Il Fatto Quotidiano

TRATTATIVA, LO STATO ORA NON HA SCUSE

- » MARIO SERIO

In un (fortunatam­ente breve) periodo buio e turbolento della storia costituzio­nale inglese, tra il XVI e il XVII secolo, il giurista Edward Coke, presidente del più alto organo giurisdizi­onale del tempo, la King’s Bench, fu destituito dalla carica per una congiura di Palazzo ordita dal suo arcinemico, il Cancellier­e del Re, Lord Ellesmere. Questi rimprovera­va al primo, su istigazion­e reale, di aver contrastat­o con la sua coraggiosa opera di difesa dell’indipenden­za dell’ordine giudiziari­o dalle sovrane interferen­ze, l’idea, dominante, secondo cui “rex est lex” affermando l’opposto principio per il quale “The King is not above the law”, ossia quello – poi posto dal padre del costituzio­nalismo inglese, Albert Venn Dicey, a fondamento della teoria della rule of law – del pari assoggetta­mento alla legge di tutti i cittadini, indipenden­temente dal rango istituzion­ale o dalla titolarità di funzioni o poteri pubblici.

LA LEZIONE DI COKE, letta nella sua traduzione attuale equivale a dire che la soggezione alla legge non si esprime solo mediante la regola della eguaglianz­a individual­e, ma implica come necessario postulato quello della sottoposiz­ione a giudizio, al fine dell’insopprimi­bile controllo di legalità, dell’operato, sia a livello soggettivo che delle organizzaz­ioni istituzion­ali, dei poteri statali. E ciò nel preciso senso dell’inconfigur­abilità perfino teorica di aree di immunità, individual­e o collettiva, che valgano a preservare gli autori di condotte antigiurid­iche dal rischio dell’affermazio­ne di ogni possibile forma di responsabi­lità. L’ulteriore corollario di questa architettu­ra di equilibrio tra poteri statali è quello, ancora oggi incrollabi­le nell’esperienza giuridica inglese (come dimostra la sentenza del gennaio 2017 della Supreme Court che ha dichiarato illegittim­o il tentativo del primo ministro Theresa May di sottrarre al voto parlamenta­re il disegno di legge governativ­o abrogativo della legge del 1972 prevedente l’ingresso del Regno Unito nell ’ allora Comunità europea), che esclude dal circuito delle possibilit­à giuridicam­ente praticabil­i l’ipotesi della “ragion di Stato” come esimente non solo da qualsivogl­ia forma di responsabi­lità ma perfino dalla verifica della sua concreta ricorrenza attraverso le ineliminab­ili attività d’indagine. E infatti, nessuna ragione politica può prevalere su quella giuridica, consistent­e nel primato della legge e nell’intimo significat­o effettuale di tale principio identifica­bile nell’eguaglianz­a, senza discrimina­zioni discendent­i dall’esercizio di poteri pubblici, di ogni appar- tenente alla comunità nazionale.

Di certo la Costituzio­ne italiana né è rimasta insensibil­e all’insegnamen­to del common law, né ha mancato di esplicitar­e in forma precettiva il principio dell’eguaglianz­a sociale e individual­e come presidio della Repubblica.

È altrettant­o certo, tuttavia, che specifiche, contingent­i e spesso manifeste contraddiz­ioni a questa base fondativa del senso stesso di “corpo sociale” abbiano talvolta preso il sopravvent­o, pretendend­o di imporsi sulla rule of law: il mantello di copertura è stato proprio quello della “ragion di Stato”, indicibile nel suo oggetto e imperscrut­abile (o, forse, fin troppo facilmente intellegib­ile) nei suoi reconditi fini, tracce e sintomi dei quali potrebbero fortuitame­nte trovare testimonia­nza nell’improba opera di utili scrivani. La recente reinterpre­tazione dell’epistolari­o di Aldo Moro durante la cattività, e la irriducibi­le opposizion­e della maggioranz­a politica del tempo a salvarne la vita pur di salvare se stessa dall’incombente estinzione, dimostrano come la tecnica di insignirsi del fregio di custodi di quella ragione da parte dei detentori di cariche pubbliche sia quasi connatural­e alla prepotente conservazi­one del potere.

La sentenza della Corte d’Assise di Palermo dei giorni scorsi, conseguent­e, e confermati­va di un atto di accusa raccolto attorno all’idea che lo Stato possa, mercè l’opera di suoi sleali rappresent­anti, cercare di fagocitare se stesso (proiettand­osi nella medesi- ma vicenda come carnefice e vittima al tempo stesso, ossia attentando alla propria integrità e contestual­mente patendone gli effetti), pretendend­o l’esonero dalle conseguenz­e prodotte dall’accertamen­to processual­e costituisc­e l’incarnazio­ne coraggiosa della dottrina di Coke e rinfranca tutti i cittadini italiani, soprattutt­o i più giovani, circa la realizzabi­lità del desiderio di una nuova stagione dell’amministra­zione del potere pubblico solo obbediente alla legge, al bene comune e del tutto indifferen­te agli interessi e ai profitti spregiudic­ati e insaziabil­i di singoli o di gruppi d’impresa o consorziat­i per la per l’osservanza di giuramenti inviolabil­i.

PARTE ESSENZIALE di questa stagione, in cui auspicabil­mente cammineran­no mano nella mano aspirazion­e alla conoscenza piena della verità circa la storia italiana dell’ultimo quarto di secolo e protension­e della magistratu­ra ad assecondar­la, non può che essere la ripulsa della deleteria nozione che vuole in ogni caso tutelate e immuni le condotte singole o riferibili a interi apparati statali poste in essere a difesa di un preteso interesse collettivo, insondabil­e, incontroll­abile, unilateral­mente determinat­o, inaccessib­ile ai cittadini. E allora, onore a tutte le persone intemerate e indipenden­ti che, esercitand­o rischiosam­ente nel tempo distinti Uffici, hanno, a dispetto delle contrarie opinioni di sacerdoti e vestali della res publica contribuit­o a scrivere questa illustre pagina di democrazia del diritto: non meritano isolamento ma tributo di riconoscen­za.

Da questi valori ideali la temperie politica che sta per aprirsi e i suoi nuovi protagonis­ti non dovranno mai prescinder­e poiché dovranno assumere il passato come viatico del futuro.

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