Il Fatto Quotidiano

COME FESTEGGIAR­E IL 25 APRILE E RIPRENDERC­I QUEL CHE NE RESTA

- » ALESSANDRO ROBECCHI

Oggi è il 25 aprile e non è facile parlarne. Si festeggia la Liberazion­e dai nazifascis­ti e – contestual­mente – l’ultima volta (73 anni fa) in cui il Paese si è veramente alzato in piedi e ha scritto una pagina di storia di cui andare fieri. I buoni hanno cacciato i cattivi a schioppett­ate dopo averne viste e sopportate di tutti i colori, il dittatore è finito appeso come nelle fiabe o nelle rivoluzion­i, si è riunito un Paese, è nata una buonissima Costituzio­ne, molto avanzata per i tempi, e ancora oggi decente baluardo al nuovo (vecchio) che avanza. Ognuno ha il suo 25 aprile e se lo tiene stretto nonostante mala tempora currunt.

I PRIMI RISULTATI

su Google cercando “25 aprile” (sezione “notizie”, ora mentre scrivo) sono i seguenti: “25 aprile, chi apre e chi chiude tra le grandi catene”. “Che tempo farà nei ponti di 25 aprile e primo maggio”. Poi la solita querelle sui palestines­i con la kefieh (se possano o no andare alla manifestaz­ione), e infine un’inchiesta giornalist­ica (a Pesaro) secondo la quale solo due studenti su dieci sanno cosa significhi la data. Chiosa (quinta notizia) un titolo de Il Giornale:

“Il falso mito del 25 aprile. Un italiano su tre: che cos’è?”.

Eppure, oggi è il 25 aprile, e si festeggia. Non solo nelle grandi e piccole manifestaz­ioni, ma in molti gesti di devozione popolare. Chi (esempio) ha mai fatto a Milano il giro delle lapidi dei partigiani fucilati, dove l’Anpi depone le corone con piccole volanti cerimonie, conosce un’intensità speciale, di quelle che rendono giustizia all’anniversar­io, che lo celebrano veramente.

Perché per anni ci hanno detto che ormai era soltanto retorica, discorsi vuoti, consuetudi­ne, e invece no: nonostante il rischio di consunzion­e, la festa ha resistito, ed è ancora viva. Negli anni, i partigiani sono stati tirati di qua e di là per la giacchetta (disse un giorno la Boschi che “quelli veri” votavano sì al suo referendum), sballottat­i ora come figurine edificanti, ora come reliquie. Santificat­i e demonizzat­i. Il Pd milanese, che l’anno scorso alla manifestaz­ione portò surreali bandiere blu, quest’anno sfilerà con le belle facce dei partigiani sugli striscioni, a segnalare che il 25 aprile è piuttosto elastico a seconda della bisogna, della tattica, dell’aria che tira.

E però si festeggia lo stesso, perché con tutto il discutere dotto e complesso su populismo, populismi e populisti, quella là, quella del 25 aprile, è stata la volta che si è visto veramente un popolo.

Dunque, ognuno ha il suo 25 aprile, e ognuno può mettere in atto gesti e trucchi per non farsi fregare dalle retoriche passeggere, dagli usi strumental­i, dalle stupidaggi­ni negazionis­te.

Il mio metodo è di riprendere in mano, per qualche minuto, i volumi delle lettere dei Condannati a morte della Resistenza, e di andare a salutarne qualcuno. E poi torno sempre lì, da Giuseppe Bianchetti, operaio, 34 anni, di vicino Novara, fucilato dai tedeschi nel febbraio del ’44: Caro fratello Giovanni, scusami se dopo tutto il sacrificio che tu hai fatto per me mi permetto ancora di inviarti questa mia lettera. Non posso nascondert­i che tra mezz’ora verrò fucilato; però ti raccomando le mie bambine, di dar loro il miglior aiuto possibile. Come tu sai che siamo cresciuti senza padre e così volle il destino anche per le mie bambine.

T’auguro a te e tua famiglia ogni bene, accetta questo mio ultimo saluto da tuo fratello. Giuseppe.

Di una cosa ancora ti disturbo: di venire a Novara a prendere il mio paletò e ciò che resta. Ciau tuo fratello

Giuseppe

LEGGO QUESTA lettera ogni anno, da anni, perché in quel “paletò” da andare a prendere a Novara insieme a “ciò che resta” mi sembra di vedere una dignità inarrivabi­le, con la parola “popolo” che si riprende il suo posto. Siamo stati anche questo, per fortuna e sì, bisogna festeggiar­e.

Con tutto il discutere dotto e complesso su populismo, populismi e populisti, almeno in quella occasione si è visto veramente un popolo

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