Accusa le guardie di rubare e viene massacrato in cella
L’inchiesta Un tunisino denunciò alcuni agenti della penitenziaria a Velletri Arrestato a Milano e pestato perché non testimoniasse: 11 verso il processo
Uno lo chiamano Hitler, uno il Rosso, via via li riconosce tutti. Da dietro un vetro. Non vi deve essere contatto. Ma non ha dubbi. Sono loro. Saranno undici, tra ispettori e agenti di polizia penitenziaria, a finire indagati dalla Procura di Milano con le accuse, a vario titolo, di falso ideologico e intralcio alla giustizia, lesioni e sequestro di persona. A tutti è contestato l’intralcio alla giustizia in concorso. Il loro obiettivo: fare pressioni su Ismail Ltaief, nato in Tunisia nel 1966 e detenuto a San Vittore, affinché non testimoniasse in un processo a Velletri contro altri colleghi della penitenziaria accusati di aver sottratto derrate alimentari dal carcere del Comune laziale. A farli finire sul banco degli imputati sono, nel 2011, proprio le dichiarazioni del tunisino all’epoca ristretto in quel penitenziario. L’uomo rivela anche i pestaggi nei confronti di chi si opponeva a quelle ruberie. Il processo di Velletri arrivato in Appello ha già registrato alcune assoluzioni.
DOPO LA SCARCERAZIONE, il tunisino, attualmente difeso dall’avvocato Alessandra Silvestri, arriva a Milano da uomo libero. In città frequenta il boschetto della droga nel quartiere di Rogoredo. Sarà arrestato con l’accusa di tentato omicidio per aver sparato alle gambe a un egiziano di 34 anni. Finisce a San Vittore. Qui, nel 2017, avviene il regolamento di conti, ricostruito dal pm Leonardo Lesti, che ieri ha chiuso l’indagine a carico degli undici. Sul tavolo: pestaggi e minacce da parte degli agenti per fare ritrattare Ltaief o addirittura per non andare al processo. Due, in particolare, gli episodi di violenza contestati. Quello del 27 marzo, avvenuto in cella, e quello del 12 aprile consumato in un corridoio dove non ci sono telecamere. “Anche se – si legge nel verbale dell’incidente probatorio del 6 novembre scorso – il Rosso (un agente penitenziario, ndr) ha iniziato con piccoli ricatti già prima del 27 marzo. Lo chiamava infame o spione davanti agli altri detenuti. E infatti i carcerati pensavano fosse un pedofilo o uno stupratore”.
IL SENSO di impotenza davanti a questi soprusi, ritenuti credibili dal pubblico ministero, lo porta anche a compiere diversi atti autolesionisti. Per questo, spiega il giudice, si è reso necessario l’incidente probatorio. “C’è– scrive il gup – il serio pericolo che egli non possa essere esaminato in dibattimento per morte o grave infermità”. Insomma, il racconto del tunisino, confermato anche da due compagni di cella, viene tenuto in considerazione dalla Procura. “Circa l’episodio del 12 aprile – racconta il tunisino – verso le dieci di sera è arrivato un agente, che in passato mi aveva infastidito. Lui mi ha detto di seguirlo. E di fare il detenuto. Siamo arrivati sulla scala, mi ha messo le manette e ha incominciato a picchiarmi al fegato, sul torace. Con un apparecchio che ha infilato nelle mani, mi ha detto che questo me lo mandava l’agente di Velletri che avevo de- nunciato. Io sono svenuto”. Che cosa fosse l’oggetto tenuto in tasca resta, per ora, un mistero. L’aggressione non è finita. Il tunisino prosegue: “Quando mi sono ripreso continuava a picchiarmi. Io ho incominciato a urlare per farmi sentire dagli altri detenuti. Poi mi ha portato nell’ufficio del capo-posto, lì c’erano due agenti, io chiedevo aiuto. L’ispettore si è scagliato verso di me insultandomi e prendendomi a calci. E mentre mi picchiavano, dicevano che non dovevo andare a testimoniare a Velletri. Quando sono tornato in cella, i miei compagni, per darmi un po’ di sollievo, hanno usato il dentifricio”. Il 27 marzo c’è la prima aggressione. “L’ispettore e il torturatore sono entrati nella cella. Mi hanno insultato, mi hanno picchiato nel locale cucina. In infermeria ho detto che avevo sbattuto il capo contro la porta, poi, però, ho detto che mi avevano costretto a dire che ero caduto”.
Minacce e violenze
La vittima al giudice: “Mi dicevano infame per farmi passare come pedofilo o stupratore”
LE MINACCE funzionano tanto che, scrive il giudice nel settembre 2017, “Ismail ha rifiutato la traduzione per essere sentito come teste nel procedimento di Velletri”. Ora, però, l’indagine è chiusa. Si attende la richiesta di rinvio a giudizio per gli undici indagati (tutti trasferiti da San Vittore). Nel frattempo Ismail Ltaief si trova nel carcere di Opera.