Kamikaze anti-elezioni l’Isis comanda in Libia
Assalto alla sede della commissione per il voto: 14 morti. Nel paese non ci sono le condizioni, ma Francia ed Egitto spingono per le urne
Un
gruppo di miliziani, tra cui due attentatori suicidi, ha colpito il quartier generale della commissione elettorale a Tripoli. Almeno 14 vittime e oltre 20 feriti. Prima di farsi saltare in aria, gli attentatori hanno avuto uno scontro a fuoco con il personale di sicurezza, riuscendo a incendiare l’edificio. Il palazzo risulta quasi completamente distrutto, e con esso i registri elettorali preparati in vista del voto che dovrebbe tenersi entro l’anno, con i dati di almeno un milione di nuovi elettori.
Per la blindata capitale del governo di Fayez al-Sarraj, sostenuto dall’Onu (e dall’Italia), si tratta di uno dei più gravi attentati dalla fine del regime di Gheddafi, simile nelle modalità all’attacco del 2015 contro il Corinthia Hotel di Tripoli, frequentato da funzionari del governo libico e dell’Onu. “Un’azione pensata per instillare sconcerto e paura, non solo in Libia, ma nei confronti di tutta la comunità internazionale”, commenta alla tv panaraba Al Jazeera l’analista politico libico Anas El Gomati, che si dice anche sicuro di come l’attentato sia riconducibile, come nel 2015, alla responsabilità dell’Isi s. L’organizzazione jihadista rialza la testa per mostrare di essere ancora capace di agire e condizionare la vita politica di un Paese diviso, fragile e privo di un governo riconosciuto da tutti. In Libia sono presenti due parlamenti, quello del Tripoli e quello di Tobruk a est e il Paese rimane diviso tra l’autorità del governo Serraj e le milizie legate al generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, da poco rientrato a Bengasi dopo essere stato dato ad- dirittura per morto mentre era in ospedale a Parigi.
“La modalità dell’attentato indica la matrice jihadista – sia essa proveniente da Isis che da Al Qaeda - e l’intento è chiaro: far deragliare le prossime elezioni”. Arturo Varvelli, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano e autore di Dopo Gheddafi: democrazia e petrolio nella nuova Libia (2012) e Foreign actors in Libya crisis (2017) .
Il fantasma-Haftar L’uomo-forte di Bengasi, pur malato, cerca la consacrazione popolare
È OPPORTUNO ANDARE AL VOTO in un Paese dilaniato dalla guerra tra milizie? “Non sempre le urne sono sinonimo di democrazia, come dimostrano i casi di Iraq o Afghanistan. Le scorse consultazioni libiche, tenute nel 2014, hanno portato a una forte polarizzazione, non certo alla convergenza tra le parti in conflitto”, ragiona lo studioso. Affinché le elezioni siano dav- vero democratiche, occorrono una serie di passaggi preparatori e intermedi, che al momento non sono visibili.
Ma chi ha interesse ad andare al voto? “In particolare due importanti attori internazionali come Francia ed Egitto. Nonostante i problemi di salute, il generale Haftar, sostenuto con forza sia da Parigi che dal Cairo, è convinto di potere emergere come leader in grado di centralizzare il potere, se legittimato dal consenso popolare”, osserva Varvelli.