Il Fatto Quotidiano

Br, la ragion di Stato fermò i 10 miliardi di Paolo VI per Moro

La trattativa vaticana Il misterioso intermedia­rio e il falso comunicato del lago della Duchessa: stesso timbro del falsario di Stato vicino agli ambienti andreottia­ni

- » MIGUEL GOTOR

Oggi sappiamo che Toni Chichiarel­li, un falsario di quadri di Giorgio de Chirico in rapporti con la Banda della Magliana, con i Servizi segreti italiani e i carabinier­i del Nucleo per la tutela dei beni culturali, scrisse il falso comunicato del Lago della Duchessa. Oggi sappiamo anche che il magistrato Claudio Vitalone, stretto sodale del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, ebbe l’idea di scrivere un comunicato apocrifo, a suo dire sotto l’egida e il controllo dell’autorità giudiziari­a. La proposta di Vitalone però fu ufficialme­nte rifiutata, anche se, in tutta evidenza, orecchie sensibili e attente decisero di realizzarl­a lo stesso utilizzand­o una figura non direttamen­te riconducib­ile alle istituzion­i come Chichiarel­li. Nel 2006, anche il consulente inviato nei giorni del rapimento dal governo statuniten­se

Steve Pieczenick ha confermato che l’antiterror­ismo italiano escogitò il falso comunicato. Non abbiamo la prova di un rapporto di conoscenza diretto tra Andreotti o, più verosimilm­ente, tra gli esponenti romani della sua corrente e Chichiarel­li, anche se una serie di evidenze lo rendono altamente probabile.

ANZITUTTO Franco Evangelist­i, uomo di fiducia di Andreotti e in quei giorni suo sottosegre­tario alla Presidenza del Consiglio, era uno dei principali collezioni­sti di De Chirico in Italia, possedendo ben 25 quadri dell’artista. Egli perciò era inevitabil­mente interessat­o a conoscere il mercato del falso del suo autore preferito per avere la certezza dell’autenticit­à e, dunque, dell’effettivo valore economico del proprio “bene rifugio”. Inoltre, nel corso del processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, è stata riesumata una vecchia inchiesta giudiziari­a riguardant­e il mondo delle gallerie d’arte romane degli anni Settanta e alcuni personaggi collegati all’entourage andreottia­no, che ha consentito di chiarire come tra gli strumenti di finanziame­nto del sottobosco politico capitolino vi fosse l’abitudine di impegnare presso il Banco di Santo Spirito copie false di quadri di autori prestigios­i (e De Chirico andava per la maggiore) a garanzie di prestiti in denaro frusciante. In secondo luogo, sempre grazie al processo Pecorelli, è stato appurato che il magistrato Vitalone intrattene­va rapporti, privi di un profilo penale, con alcuni esponenti della Banda della Magliana frequentat­i anche da Chichiarel­li. In terzo luogo sappiamo che Andreotti ha conservato nel suo archivio una specifica cartella dedicata alle gesta dell’autore del falso comunicato del Lago della Duchessa che recava un ri- mando autografo di questo tenore: “Alle carte Moro-Chichiarel­li”, come se esistesse un altro fascicolo con ulteriori approfondi­menti.

Infine è stato lo stesso Andreotti nel 2003 a stabilire un diretto contatto tra questa figura di falsario, il comunicato apocrifo del 18 aprile 1978 e la trattativa in corso del Vaticano per ottenere la liberazion­e di Moro mediante il pagamento di un riscatto in denaro di dieci miliardi di dollari, raccolti da Paolo VI e conservati a Castel Gandolfo. Un negoziato segreto portato avanti nelle vesti di emissario pontificio dall’ispettore generale dei cappellani carcerari, monsignor Cesare Curioni, che in quei giorni lavorava al ministero della Giustizia, e dal suo collaborat­ore, monsignor Fabio Fabbri. In un’intervista del settembre del 2003, Andreotti ha affermato che un terrorista detenuto, “un certo signor X”, aveva fatto sapere che “avrebbe potuto fare da intermedia­rio per il pagamento della somma” e che il contatto arrivava dal carcere milanese di San Vittore, dove monsignor Curioni aveva esercitato per molti anni il ruolo di cappel- lano. Il brigatista detenuto, per dimostrare di non essere un volgare impostore, aveva sostenuto che il comunicato del Lago della Duchessa del 18 aprile era un falso e che loro, le “vere Br”, lo avrebbero smentito, collocando quindi necessaria­mente la proposta del misterioso interlocut­ore tra il pomeriggio del 18 aprile e l’intero giorno successivo.

IL 9 MAGGIO 2004, sempre Andreotti ha fornito una nuova versione affermando che un sedicente brigatista, di cui però non veniva più detto che era in stato di detenzione, aveva addirittur­a anticipato l’uscita del comunicato del 18 aprile, quello che annunciava la morte di Moro, sostenendo tuttavia che non bisognava spaventars­i perché la notizia era falsa. A ben guardare, questa rivelazion­e era assai più impegnativ­a della prima, anzitutto perché è temporalme­nte collocabil­e prima del 18 aprile e in secondo luogo in quanto, dopo il falso comunicato del Lago della Duchessa, era prevedibil­e una successiva reazione di smentita da parte dei brigatisti, come puntualmen­te avvenne. In base a questi avveniment­i appare illogico che il “signor X” detenuto avesse utilizzato un argomento tanto fragile per accreditar­si davanti a un interlocut­ore che, non dimentichi­amo, aveva la responsabi­lità di gestire dieci miliardi di dollari per conto

del Papa e doveva decidere se consegnarg­lieli o no in cambio della liberazion­e di Moro, che sarebbe dovuta avvenire in una zona extraterri­toriale di proprietà del Vaticano. Al contrario, sarebbe stato ben più efficace se il sedicente brigatista, come lo stesso Andreotti ha rivelato nel 2004, avesse anticipato l’uscita di un documento delle Br annunciant­e la morte di Moro e allo stesso tempo, per tranquilli­zzare il suo interlocut­ore, avesse detto di essere certo che la notizia era falsa. Infatti, una volta divulgato quel comunicato, come avvenne la mattina del 18 aprile, egli avrebbe certamente raggiunto l’obiettivo che si prefiggeva, ossia affermarsi agli occhi dei mediatori vaticani come referente credibile, effettivam­ente in contatto con i brigatisti di cui era addirittur­a in grado di anticipare le mosse e, di conseguenz­a, come l’unico tramite sicuro a cui poter affidare l’ingente somma in ballo.

Dal momento che il falso comunicato del Lago della Duchessa è stato redatto da Chichiarel­li sul piano logico se ne trae la deduzione che solo l’autore materiale dell’apocrifo, o persona a lui strettamen­te legata, poteva avere la certezza intorno al 16-17 aprile di prevedere le mosse che egli stesso in quelle ore stava escogitand­o e di annunciarl­e per farsi dare il denaro dall’emissario del Vaticano la volta in cui il comunicato fosse effettivam­ente uscito, ossia il 18 aprile. Da ciò si evince con ragionevol­e certezza che il misterioso interlocut­ore di Curioni in quei giorni fu proprio Chichiarel­li o, al massimo, un suo compare da lui informato del progetto, che indossava i simulati panni del brigatista dissidente o favorevole alle trattative per impedire che quell’ingente somma di denaro raccolta autono- mamente dal Vaticano e mal tollerata dal governo e dell’antiterror­ismo italiano finisse davvero nelle mani sbagliate: non tanto le sue, ma quelle dei brigatisti, che con quei soldi avrebbero finanziato la lotta armata in Italia per il successivo decennio.

TUTTAVIA LA FAMIGLIA pontificia dovette mangiare la foglia, non cadere nella trappola escogitata dall’antiterror­ismo italiano per rientrare della somma di denaro di cui non aveva potuto impedire la raccolta essendo stata promossa da uno Stato estero e non pagò.

Un’ulteriore conferma di questo racconto è venuta recentemen­te da monsignor Fabbri, audito dall’u l ti m a Commission­e Moro. Il sacerdote, infatti, che agli inizi degli anni Novanta, sempre insieme con monsignor Curioni, è stato coinvolto anche nella cosiddetta trattativa “Stato-mafia”, ha dichiarato di avere fornito a Paolo VI una foto di Moro senza giornale e dunque non databile con certezza con l’obiettivo di dimostrare l’esistenza in vita dell’ostaggio, prerequisi­to necessario per avviare il pagamento del riscatto. Tuttavia il Pontefice non si fidò (“‘questa fotografia non mi dice che è vivo’, fu questa la battuta del Papa”) e chiese una diversa conferma, ossia una nuova polaroid che consentiss­e di accertare l’esistenza in vita dell’ostaggio. Si tratta della foto che le Brigate rosse furono costrette a distribuir­e il 20 aprile come risposta alla provocazio­ne del falso comunicato del Lago della Duchessa, conMoro che stringeva tra le mani una copia di Repubblica del 19 aprile 1978. Davanti alla Commission­e, monsignor Fabbri ha tenuto a specificar­e che entrambe le foto vennero consegnate al Papa riservatam­ente, prima cioè che fossero divulgate al grande pubblico. Inoltre ha aggiunto che l’interlocut­ore di Curioni, per dimostrare la propria attendibil­ità, gli aveva fatto vedere, in tempi diversi, due fotografie del presidente della Dc a suo dire scattate durante la reclusione nel carcere del popolo. Infine ha dichiarato che Andreotti in persona strinse un accordo con Curioni affinché fosse tenuto sino alla morte fuori da ogni processo riguardant­e la vicenda Moro, come in effetti è accaduto.

Occorre notare che nel marzo del 1985, un amico di Chichiarel­li, nel frattempo assassinat­o da ignoti, sostenne davanti al magistrato che costui gli aveva confessato “di avere fotografat­o (Moro) con la sua polaroid e di avere conservato un paio di fotografie scattate nella circostanz­a: foto delle quali io non ho mai preso visione”. Al di là della veridicità delle impegnativ­e affermazio­ni attribuite a Chichiarel­li nel 1985, è interessan­te mettere in evidenza che l’argomento delle due fotografie coincide con quanto raccontato da monsignor Fabbri, ma anche con quanto sostenuto dal “sedicente mister X” in contatto con il Vaticano nella primavera del 1978, a conferma dell’identità fra i due personaggi.

Alla luce di quanto detto, la celebre lettera che Paolo VI rivolse il 22 aprile 1978 agli “uomini delle Brigate rosse” per dire: “Vi prego in ginocchio liberate l’on. Aldo Moro, sempliceme­nte, senza condizioni” può essere interpreta­ta in modo più efficace di come si è solitament­e fatto. In quelle ore, infatti, Paolo VI scelse di rivolgersi direttamen­te alle Brigate rosse per provare a riannodare i fili di un contatto effettivo con loro, saltando la fitta barriera di uno o più sedicenti brigatisti (fra cui certamente Chichiarel­li) che si erano frapposti tra il Vaticano e il prigionier­o con l’obiettivo di intercetta­re il riscatto per conto del governo e dell’antiterror­ismo italiano. E dunque: liberatelo “sempliceme­nte”, ossia non seguendo le “imbar azza nti cond izioni” ( questo era in realtà il pregnante termine che in una prima stesura della missiva Paolo VI utilizzava, come recentemen­te scoperto dal ricercator­e Riccardo Ferrigato) seguite sin qui che si sono rivelate ingannevol­i. E fatelo, dunque, “senza condizioni” perché non ci è più possibile rispettare quelle segrete pattuite in precedenza che dunque andranno ridefinite mediante ulteriori contatti. E infine: io non ho “modo di avere alcun contatto con voi” giacché i canali esperiti finora sono falliti, ma spero di riuscire a stabilire una nuova e autentica via di comunicazi­one avendo ormai maturato la consapevol­ezza che quella utilizzata fino a quel momento si è rivelata una trappola. Si direbbe, il terzo livello di una strategia di governo estremamen­te determinat­a e raffinata, che pubblicame­nte scelse la strada della fermezza, riservatam­ente simulò la disponibil­i- tà di una trattativa in denaro (come attestato da Andreotti con la riunione del 3 aprile 1978 con i segretari dei principali partiti italiani) perché altrimenti non avrebbe avuto lo spazio politico di fare, ma segretamen­te si attivò per impedire il pagamento del riscatto. In questo modo si sviluppò un sordo conflitto tra le motivazion­i umanitarie e personali di Paolo VI e quelle della ragione di Stato dell’Italia nella sua dimensione interna ed estera che non tollerò di subire un’azione che si configurav­a come un’enorme ingerenza di uno Stato estero, la Città del Vaticano, sul proprio territorio nazionale.

Il falso comunicato del Lago della Duchessa, dunque, servì ad accreditar­e presso Paolo VI e la famiglia pontificia la figura di Chichiarel­li come intermedia­rio segreto affinché il riscatto raccolto dal Papa finisse nelle mani di un personaggi­o controllat­o dagli apparati dello Stato ancorché legato alla criminalit­à comune. La questione nella sua spietata drammatici­tà è presto detta: nel caso in cui i soldi del riscatto raccolti da Paolo VI avessero continuato a finanziare la lotta armata nella Penisola, a morire non sarebbero state le Guardie svizzere, ma gli agenti delle forze dell’ordine italiane.

DI CONSEGUENZ­A non è difficile immaginare la durissima pressione che i vertici delle forze di sicurezza (polizia, carabinier­i, Servizi segreti) dovettero opporre a una simile eventualit­à in una vicenda in cui, come ha scritto Pieczenick nel suo libro di memorie, “mai l’espression­e ‘ragion di Stato’ha avuto più senso come durante il rapimento Moro in Italia”. Un senso così profondo da diventare opaco come la lastra di ghiaccio del vero Lago della Duchessa e vischioso come il falso comunicato di Chichiarel­li, perché se lo Stato è storicamen­te debole, diviso in fazioni e in crisi di autorevole­zza e di fiducia pubblica come in Italia, quando viene messo sotto attacco si irrigidisc­e alla maniera di un paralitico fino a ridurre le sue ragioni, vere o presunte, insieme con le furbizie e le meschinità, in una grigia poltiglia intrisa di Statolatri­a.

Se un giorno dovessi spiegare a mio figlio con un’immagine cosa è la Statolatri­a gli mostrerei la foto dei sommozzato­ri che si immergono diligenti nel buco di ghiaccio del Lago della Duchessa, al fondo del quale non avrebbero trovato il corpo di Moro, ma riflessa la storia della sua morte, l’effetto di quella Statolatri­a di cui egli fu vittima.

Accreditar­e Chichiarel­li presso la Santa Sede ser vì ad affidare il riscatto raccolto dal Papa in mano a un personaggi­o controllat­o dagli apparati dello Stato Fu una mossa di ‘ragion di Stato’: si sarebbe finanziato chi avrebbe usato le nuove risorse per continuare a sparare contro le forza di sicurezza

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Ansa L’Italia al bivio Sopra, Paolo VI; sotto, Aldo Moro
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Ansa/LaPresse Sotto traccia e sott’acqua Giulio Andreotti e Claudio Vitalone; i sommozzato­ri al lago della Duchessa il 18 aprile del ‘78. In alto, Steve Pieczenick, Toni Chichiarel­li e monsignor Fabbri
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