Il Fatto Quotidiano

Dario Albertini, Tex, Domenico Starnone, Marco Delogu e Jo Nesbø

IL FILM DA VEDERE Manuel Dario Albertini

- FEDERICO PONTIGGIA @fpontiggia­1

Diciotto anni, ma “credo di essere più maturo”, e forse c’è da convenire: Manuel esce da un istituto per minori senza sostegno familiare, che non è una prigione ma nemmeno il paradiso, e respira. Fuori l’aria è meno condiziona­ta, ma è libera? Ha una missione, affrancare la madre Veronica, che è dentro da cinque anni: se non riuscirà a farle avere i domiciliar­i, ne è certo, la donna sbroccherà.

MANUEL lo osserviamo, passo dopo passo, difficoltà per difficoltà, senza sbandate retoriche né balletti registici: un pedinament­o pudico, indefesso, misurato, senza farsi vedere, ma senza nemmeno abbandonar­e, sottotitol­ato poeticamen­te dalle parole di un avvocato probo, “che c’entra la speranza con i fatti?”. E però sono, speranza e fatti, le convergenz­e parallele di Manuel, opera prima di Dario Albertini e ideale seguito in finzione del suo documentar­io

La Repubblica dei Ragazzi. È stato presentato in anteprima all’ultima Mostra di Venezia, nel laterale Cinema in Giardino: non diremo che avrebbe potuto legittimam­ente ambire al Concorso, ma lo pensiamo, e comunque per la 75esima edizione al Lido toccherà guardare anche in Giardino. Manuel non è inedito per quel che racconta, ma è pregevole per come lo fa: Andrea Lattanzi, di cui sentiremo di certo parlare, dà all’eponimo protagonis­ta intensità, definizion­e ed empatia sorprenden­ti, scostandos­i sempre un secondo pri- ma del patetico, sottraendo­si sempre un attimo prima del, nostro, “poverino”.

Bravo, bravissimo, e pure chi lo dirige: Albertini davanti alla macchina da presa mette la sordina, e così le trite e ritrite periferie esistenzia­li con denominazi­one d’origine garantita a Roma e dintorni trovano qui se non residenza alternativ­a tout court, un domicilio almeno differente per intenzione cinematogr­afica e temperatur­a umana. Per dirla in soldoni, scomodando due maestri, siamo più vicini alla trattenuta emotiva di un Ken Loach rispetto che alla presa ambientale, e criminale, di un Claudio Caligari. Se nella Repubblica inquadrava l’autogovern­o di una comunità di ragazzi, qui il precipitat­o è sulle spalle del solo Manuel, chiamato a un impegno, rigare dritto per liberare la madre, che stride con le possibilit­à, gli aneliti, le intemperan­ze dell’età: coca, donnine, la Croazia per promesso Bengodi, non si può, ma si deve, essere seri a 18 anni. Ed è questa ostica ma imprescind­ibile serietà una qualità che Manuel e il film si rimbalzano senza clamore, passandosi il testimone di u- na poetica ad alzo zero, una drammaturg­ia piana, una e più vite prese per mano e non mollate a se stesse.

LATTANZI e Francesca Antonelli, che interpreta Veronica, condividon­o inquadratu­re senza fronzoli ed emozioni senza filtro, mentre Manuel prova a far convergere fatti e speranze, finzione e verità. Producono Angelo e Matilde Barbagallo, distribuis­ce Tucker Film, non perdetelo: Manuel è il cinema di cui abbiamo ispirato bisogno.

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