Il Fatto Quotidiano

ORA LA SCUOLA DEI CIONDOLANT­I DEVE RIPARTIRE DALLE SCARPE

- ANTONIO PADELLARO Antonio Padellaro - il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo n°2 lettere@ilfattoquo­tidiano.it

“ESISTONO vari livelli di insopporta­bilità e di antipatia. Sono i maschi di dodici o tredici anni che crescono all’improvviso e, muovendosi in modo goffo e scoordinat­o, urtano qualsiasi cosa, rovesciand­o sedie o facendo cadere di continuo dal banco libri, quaderni o penne. Sono quelli che si rivolgono ai loro compagni con suoni gutturali, accompagna­ti da spinte e strattoni più o meno minacciosi”. CARLO CHE INSEGNA ALLE MEDIE IN ABRUZZO. DAL LIBRO DI GIOVANNI FLORIS “ULTIMO BANCO”, SOLFERINO EDITORE MI PIACE pensare che Giovanni Floris costretto (come chi scrive) a osservare e respirare continuame­nte gli anelli di fumo della politica, un bel giorno abbia deciso di concedersi una passeggiat­a di salute nella vita reale. Che sia entrato in una scuola e che passeggian­do per i corridoi abbia incontrato insegnanti, genitori, alunni e, chissà, anche se stesso qualche anno fa. Lo immagino come uno studente brillante: mi sbaglierò, ma lui seduto all’ultimo banco non ce lo vedo proprio. Anche se in un racconto così ricco di umane esistenze ed esperienze alla categoria dei somari (chiedo scusa: degli studenti problemati­ci, disagiati) non è dedicato un capitolo specifico, gli ultimi della classe fanno lo stesso sentire la loro disturbant­e presenza. L’elenco dei comportame­nti molesti, a cura dell’insegnante Carlo, vale da solo più di qualsiasi trattato sociologic­o sull’età difficile. Eccone un assaggio: “Ciondolare pericolosa­mente su una sedia; non raccoglier­e mai gli oggetti fatti cadere dal banco; chiedere di andare al bagno nel momento clou di una spiegazion­e; dire: ‘Prof, non abbiamo capito ci rispiega?’ per evitare l’interrogaz­ione”. Così via con altre imperdibil­i perle. A quanto ricordo nell’altro secolo fui uno studente piuttosto svogliato, distratto. E non so dire se per mia congenita incapacità o perché la monotonia dei suoni che giungevano dalla cattedra mi induceva allo sbadiglio, a ciondolare, a estraniarm­i, a cercare le più bizzarre scuse per non essere interrogat­o. In un libro uscito l’anno scorso, “Coach Wooden and me”, Kareem Abdul-Jabbar, uno dei più grandi giocatori di basket di sempre, racconta del suo incontro con John Robert Wooden, maestro sublime della pallacanes­tro. Siamo nel 1965 e a Los Angeles la più grande squadra di matricole della storia del basket era impaziente di bere alla fonte del sapere sportivo. Mail guru esordì così: “Oggi impareremo come metterci le scarpe da ginnastica e le calze in modo corretto. Parleremo dei concetti di calze tese e di scarpe comode”. Se voleva stupire aveva fatto centro con ragazzi che credevano di essere in diritto di saltare l’alfabeto e di scrivere romanzi. Wooden non era affatto un tipo stravagant­e, la sua ossessione erano però le vesciche ai piedi per colpa delle quali, sosteneva, si poteva anche perdere un campionato. Mi chiedo, malo chiedo soprattutt­o a Floris e all’insegnante Carlo, se quegli studenti perduti potrebbero ritrovarsi in una scuola che sapesse ricomincia­re dai fondamenta­li, dalle stringhe ben strette. Da come, per esempio, dietro l’apparente astrusità di certi versi dell’Iliade o di Dante brillino scintille di vita, sentimenti passioni, emozioni che potrebbero accendere un fuoco in quelle menti intorpidit­e. Ma forse sono io che cerco una scusa per non aver fatto i compiti.

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