Il Fatto Quotidiano

Olmi e la contadina Ruby

Il regista e il film-progetto: abusi nel XVI sec.

- » PINO CORRIAS

Così un giorno mi chiama e mi dice: “Ho in mente un film. Se hai tempo ne parliamo. Ti interessa?”.

Ermanno Olmi aveva una sua gentilezza speciale, senza fronzoli, di camminator­e con macchina da presa in spalla, di viaggiator­e che ha visto mol- to, le macerie della guerra e le periferie polverose di Milano, le luci del miracolo economico e i vasti tramonti che hanno inghiottit­o il mondo contadino, quella miseria pulita che non ha mai smesso di amare, anche se prima degli alberi ha raccontato le dighe e le fabbriche.

Così un giorno mi chiama e mi dice: “Ho in mente un film. Se hai tempo ne parliamo. Ti interessa?”. Ermanno Olmi aveva una sua gentilezza speciale, senza fronzoli, di camminator­e con macchina da presa in spalla, di viaggiator­e che ha visto molto, le macerie della guerra e le periferie polverose di Milano, le luci del miracolo economico e i vasti tramonti che hanno inghiottit­o il mondo contadino, quella miseria pulita che non ha mai smesso di amare, anche se prima degli alberi ha raccontato le dighe e le fabbriche, nate nella stessa inquadratu­ra della sua giovinezza. Che era giovinezza in bianco e nero.

E DUNQUE VADO a trovarlo sugli altopiani di Asiago, dove dopo la malattia Olmi era andato a respirare quella luce che a Milano non trovava più, e quei silenzi di boschi e di paesaggio che sempre aveva condiviso con il suo amico Mario Rigoni Stern. Nei cinema era appena uscito il suo ultimo film, “Torneranno i prati”, che era la storia di una trincea a 1800 metri di altezza, anno 1917, assediata dalla neve e dalla guerra, dove una manciata di ragazzi in divisa provava a vivere aspettando di morire. “Ogni guerra è un crimine – mi aveva detto quando ero andato a trovarlo in sala di montaggio a Milano –. I miei soldati parlano la lingua dei poveri, la lingua universale che è insieme sofferenza e speranza”. Nel film accade tutto in quella notte di plenilunio, tutto l’essenziale, il disegno degli uomini e il disegno di Dio che sempre coincidono, secondo Olmi, sebbene per misteriose traiettori­e. Mi aveva detto: “Borges cercava il nome segreto di Dio nei libri. Io lo cerco negli uomini. Nelle co- se fabbricate e in quelle create, nella luce della luna e in quella di un forno dove cuoce il pane”.

La sua casa di Asiago stava sopra ai boschi. Era quasi inverno, prima neve, ultime margherite. Loredana, la moglie, aveva preparato il tè, il caffè, i fogli. Lui aveva in mano un copione che non era un copione, ma i verbali di un processo nientemeno che del Sedicesimo secolo. Sapeva sempre come sbalordire: un film in costume, sei sicuro?

“Siediti e ascolta – mi aveva detto –. Il costume è relativo. Possiamo anche fregarcene”.

Mi raccontò che erano i verbali del processo a un nobile veneziano che si era incapricci­ato di una bella ragazza contadina, se l’era presa con la forza, l’aveva liberata dopo due giorni e due notti con la noncuranza della lenta digestione. Pensava di passarla liscia, come era consuetudi­ne. Invece venne denunciato dal padre della ragazza e a sorpresa il tribunale della Serenissim­a non archiviò il sopruso in omaggio al potere del nobile, ma mise sotto processo l’ingiustizi­a, in omaggio alle lacrime della vittima.

“Non la trovi una storia fantastica? Non la trovi una storia istruttiva?”.

Lo era allora. Lo è a ripensarla oggi con il soprassalt­o dell’attualità in corso, le nostre modernissi­me ragazze imprigiona­te dai riti antichi del potere maschile, da quel senso di impunità così comune tra gli uomini, padroni di giocare con il corpo altrui, senza neanche accorgerse­ne.

PER OLMI quella storia antica era un prototipo. Era teatro del mondo e della vita. Ma naturalmen­te era anche un po’ la recente storia tra il signore di Arcore e Ruby, la contadina di Mubarak, quelle notti di penoso arbitrio, di potere, di noncurante impunità.

Olmi pensava di girare l’intera storia negli interni di quel mondo antico, cercando tutti i riverberi possibili sul nostro, per il quale provava “inquietudi­ne e rabbia”, masticato com’è dai consumi che ci masticano la vita, dalle troppe luci che ci accecano, dai troppi rumori che ci lasciano sempre più soli. Diceva che avrebbe voluto farne un film bello, ma soprattutt­o utile: “C’è un cinema per sognare e un cinema per capire. A me interessa il secondo”.

Avremmo dovuto trovare un buon traduttore dal veneziano antico, anche se molto si capiva. Avremmo dovuto tagliare, cucire, inventare. Rivederci presto, parlarci molto al telefono. Poi la malattia ha fatto il resto.

Aveva in mano i verbali del processo a un nobile veneziano che si era incapricci­ato di una bella ragazza

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Ansa Una vicenda “istruttiva” A Ermanno Olmi interessav­a non il “cinema per sognare”, ma quello “per capire”

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