Ilva, l’ok dell’Ue non sblocca la vendita
Via libera a Mittal: fuori Marcegaglia e cessioni in 6 Paesi. Ma con i sindacati è stallo
Lo stallo nella vendita dell’Ilva resta per ora senza soluzione. L’Antitrust europeo ha dato ieri il via libera “condizionato” alla cessione del gruppo siderurgico ad Arcelor Mittal (Am), senza che questo portasse gli attori in causa a fare un passo in avanti nella trattativa sindacale, ferma ormai da sei mesi, dove si rischia la rottura.
L’AUTORIZZAZIONE di Bruxelles è vincolata ad alcune cessioni per evitare che Mittal assuma una posizione dominante sul mercato europeo dell’acciaio, di cui ha già circa il 40%: dovrà cedere gli impianti di Piombino, Liegi (Belgio), Dudelange (Lussemburgo), Skopje (Macedonia), Ostrava (Repubblica ceca) e Galati (Romania). Non solo. Il gruppo siderurgico Marcegaglia dovrà cedere il suo 15% della cordata con Mittal che a marzo 2017 ha rilevato il gruppo di Taranto in amministrazione straordinaria. “Ora manca solo l’accordo sindacale”, ha esultato su Twitter il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda. Eppure nessun nuovo incontro è stato fissato al ministero.
Le distanze restano incolmabili. Il nodo riguarda gli e- suberi e gli inquadramenti contrattuali. Am è ferma sulle sue posizioni, messe nero su bianco nel contratto firmato col governo (rivelato nei giorni scorsi dal Secolo XIX). Punta a ri-assumere 10 mila dei 14 mila operai diretti, salvo poi far scendere la cifra a 8.500 alla fine del piano industriale, nel 2023. Usando come scusa la discontinuità “legale” tra acquirente e compratore chiesta da Bruxelles, promette di conservare ai neo assunti di fatto solo gli scatti di anzianità, mentre il premio di risultato variabile è agganciato a obiettivi impossibili da raggiungere prima del 2023 (una perdita in busta paga intorno ai 2-3 mila euro annui). Resta poi lo spettro del Jobs act (senza l’articolo 18) per gli operai riassunti. La settimana scorsa Cgil, Cisl e Uil hanno interrotto le trattative, torneranno al tavolo solo con la disponibilità di Am a discutere del futuro di tutti gli operai, compresi i 7 mila dell’indotto, salvaguardando i salari. Ieri lo hanno ribadito, ottenendo in risposta solo l’invito alla “responsabilità di tutti” del plenipotenziario di Arcelor Mittal in Italia, Matthieu Jehl.
IL MINISTERO sembra incapace di rompere lo stallo e premere sull’acquirente. Insieme, gli impianti da cedere superano di poco l’attuale capacità produttiva dell’Ilva (6 milioni di tonnellate annue di acciaio). Un prezzo che Mittal è disposto a pagare solo se otterrà le condizioni di favore che chiede ai sindacati, mettendoli nella posizione perfetta per fare da capro espiatorio in caso di rottura. “Serviva maggiore trasparenza sul contratto firmato con Mittal, che il governo non ci ha mai fatto vedere”, spiegano Rosario Rappa e Mirco Rota della Fiom. Vengono così al pettine i nodi di una ces- sione con aspetti a tratti inspiegabili. A marzo 2017 la cordata formata da Mittal (85%) e Marcegaglia (15%) ha vinto la gara per l’Ilva contro gli indiani di Jindal – che si presentavano insieme alla pubblica Cassa depositi e prestiti – grazie al miglior prezzo offerto: 1,8 miliardi contro gli 1,2 messi sul piatto dai rivali. Come previsto, Marcegaglia, primo cliente e debitore di Ilva, è stata estromessa dall’Antitrust Ue, ma adesso Cdp è pronta a rientrare rilevando la sua quota insieme a Intesa Sanpaolo, la banca con cui Marcegaglia è pesantemente esposta. Gli strani giri finanziari fanno il paio con quelli industriali: il piano di Mittal prevede esuberi in crescita nonostante punti a riportare l’Ilva a produrre 10 milioni di tonnellate annue. Uno scenario che, dopo sei mesi di trattativa, per i sindacati resta un rompicapo.