70 anni fa Israele era Davide contro il Golia degli arabi
Il sole splende e picchia forte su Tel Aviv all’alba del 14 maggio 1948, quando un ometto canuto e commosso si alza in piedi e dà l’annuncio che tutti aspettano. Lui si chiama Micha Berdichevsky, ma tutti lo chiamano David Ben Gurion, detto anche “il figlio del leone”. È il capo del governo provvisorio di Israele. Parla scarno, ma solenne: “Proclamo la fondazione nazionale dello Stato ebraico indipendente di Palestina, che si chiamerà Israele”. Pochi minuti prima, l’ultimo soldato inglese ha lasciato il Paese, ponendo fine al mandato di Sua Maestà Britannica sulla Palestina, la lingua di terra stretta fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, spartita l’anno prima dall’Onu con la risoluzione numero 181 in due Stati: l’uno ebraico, l’altro arabo. E in quel momento, mentre il capo provvisorio dello Stato Ben Gurion viene sommerso dagli applausi, qualcuno tra i più anziani si ricorda della vecchia profezia del padre del sionismo, il giornalista e scrittore ungherese di origine ebraica Theodor Herzl, che mezzo secolo prima, nel 1897, aveva detto: “Oggi la gente riderebbe se annunciassi che ho fondato lo Stato ebraico. Ma forse, fra cinquant’anni, mi darete ragione”.
“Morte agli ebrei!”. Due anni prima, a Parigi, in una gelida mattina di gennaio del 1895, Herzl aveva assistito a una scena agghiacciante. Nella piazza d’armi della Scuola Militare, era stato degradato coram populo un ufficiale ebreo d’artiglieria, Alfred Dreyfus, appena condannato per alto tradimento in base ad accuse che si sarebbero poi rivelate infondate. A nulla era servita la sua appassionata difesa firmata dal grande Émile Zola, con il suo celebre J’accuse!. La folla parigina inferocita urlava “A morte gli ebrei!”, visti come i colpevoli di tutti i mali. Herzl era lì, in piazza. Rimase sconvolto per quel rigurgito di antisemitismo nel cuore dell’Europa. E iniziò a scrivere un libriccino, che sarebbe uscito un anno dopo con un titolo ben oltre i limiti della follia: Lo Stato ebraico. Ma ci fu chi lo prese sul serio: nel 1897 Theodor presiedeva a Basilea il primo congresso mondiale sionista. E le sue parole accesero la speranza in decine di migliaia di ebrei, soprattutto russi, in fuga dai continui p o g ro m , cioè dagli stermini di massa ispirati dalla polizia zarista. Negli ultimi vent’anni del secolo, furono un milione gli israeliti che dalla Russia fuggirono negli Stati Uniti. Poche centinaia, invece, quelli che scelsero la via più
difficile: quella che portava alla terra dei loro padri, la Palestina. Qui, nel XIX secolo, gli ebrei erano ridotti a un villaggio di Asterix di 25 mila anime, affogate fra 450 mila arabi. Dalla fine dello Stato ebraico, sancita d a l l a conquista romana de ll’imperatore Tito nel 70 d.C., non avevano conosciuto altro che dominazioni straniere: dai romani ai bizantini, dagli arabi ai crociati, dai mamelucchi ai turchi ottomani. In 17 secoli di “diaspora”, il popolo ebraico si era disperso in ogni angolo di mondo, ma non aveva mai perso la speranza. Ogni anno, a ogni cena pasquale, ogni ebreo osservante rinnovava la promessa: “L’anno prossimo a Gerusalemme”.
La svolta era arrivata a Natale del 1901. A Basilea, il 5° congresso sionista si era concluso con la decisione di distri- buire a tutti gli ebrei del mondo un salvadanaio di latta bianco e azzurro. E l’anno seguente, con i risparmi raccolti, era nato il Fondo Nazionale Ebraico, con il compito di acquistare terreni in Palestina per ospitare i primi stanziamenti. Quelle messe in vendita dai grandi feudatari arabi erano le terre di scarto: incolte e desertiche, oppure malsane e paludose, per giunta cedute a prezzi esorbitanti. Erano nati così, tra mille difficoltà, i primi kibbutzim, comunità agricole a gestione collettivistica, molto vicine agli ideali del socialismo. In pochi anni deserti e paludi si erano trasformati in agrumeti e fertili campi coltivati. Attirando, insieme alla spinta dei pogrom nell’Europa centro-orientale, nuove e continue ondate migratorie. La popolazione ebraica, nel 1914, era salita a 85 mila unità, nel 1923 a 120 mila, nel 1928 a 160 mila. Poi, dal 1932 al ’38, il grande esodo degli “indesiderati” dalla Germania hitleriana. Così, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, gli ebrei di Palestina erano arrivati a quota 400 mila.
THEODOR HERZL Oggi la gente riderebbe se annunciassi che ho fondato lo Stato ebraico. Ma forse, fra cinquant’anni, mi darete ragione 30 AGOSTO 1897
Balfour e il piccolo Focolaio ebraico
DAVID BEN GURION Proclamo la fondazione nazionale dello Stato ebraico indipendente di Palestina, che si chiamerà Israele 14 MAGGIO 1948
Nel frattempo molte cose erano accadute. Battuto nel Primo conflitto mondiale, l’Impero ottomano si era sbriciolato, la Palestina era passata in mano britannica e il nuovo padrone di casa faceva ben sperare gli ebrei. Nel 1917 il ministro degli Esteri inglese, Arthur James Balfour, aveva rilasciato una celebre dichiarazione: “Il Regno Unito vede con favore la fondazione in Palestina di un Focolare nazionale per il popolo ebraico”. Poi però la politica britannica agli ebrei non aveva dato altro che delusioni. Nel 1939 Londra aveva addirittura pubblicato un Libro Bianco che limitava severamente l’immigrazione ebraica, impedendo a migliaia di ebrei di sfuggire alla persecuzione nazista. Nonostante ciò, gli ebrei di Palestina si erano schierati in guerra a fianco dell’Inghilterra contro la Germania. Ma nel 1946 la tensione era di nuovo all’acme. Navi cariche di profughi scampati ai lager si presentavano sulle coste della Palestina e ne venivano ricacciate indietro dalle autorità inglesi. Per rappresaglia, il 22 luglio la Irgun Zwei Leu- mi, formazione paramilitare sionista, aveva fatto saltare in aria un’ala dell’hotel King David, dov’era installato il quartier generale britannico: 90 morti. Il comandante della spedizione era Menachem Begin, futuro premier d’Israele. Poi finalmente il 2 aprile 1947 la Gran Bretagna annunciò il ritiro dalla Palestina entro due mesi.
L’Onu, i due Stati. La sorte del Paese, ora, era affidata alle Nazioni Unite. Lì si iniziò a discutere della proposta di spartire il territorio in due Stati, uno arabo e l’altro ebraico. Tra la sorpresa generale, l’ambasciatore sovietico Andrej Gromyko si disse favorevole. E alla fine i Sì furono 33, contro soli 13 No. Lo Stato ebraico avrebbe compreso il deserto del Negev, la fascia costiera centro-settentrionale e la Galilea orientale: complessivamente il 55% della Palestina cisgiordana, abitata da 500 mila ebrei e 497 mila arabi. Allo Stato arabo sarebbe andato il restante 45%, con la parte centrale della Palestina, più la Striscia di Gaza e la fascia sottostante di terre tra il Negev e il Sinai: terre abitate da 725 mila arabi e 10 mila ebrei. E Gerusalemme? “Zona in te rn az io na le” sotto l’e gi da dell’Onu. Gli inglesi, prima di lasciare la Palestina, fecero un ultimo dispetto a Israele, permettendo che il grosso delle loro armi e munizioni passasse agli arabi. I quali, però, non accettarono la risoluzione dell’Onu. Scioperi, devastazioni, incursioni armate, massacri di ebrei. E, nei primi mesi del 1948, l’attacco militare di un “esercito di liberazione arabo” di 5 mila uomini, che in pochi giorni riuscì a isolare Gerusalemme, il Negev e la Galilea dai restanti territori ebraici. Ma gli ebrei, in aprile, ripresero il controllo delle principali città, da cui – spontaneamente o spontaneamente – s ta va no fuggendo in massa le popolazioni arabe.
Nello stesso istante in cui gli inglesi lasciano la Palestina viene proclamato il nuovo Stato subito attaccato dalle sei nazioni arabe confinanti
Sorti incrociate Dopo aver rischiato di soccombere, l’esercito di Ben Gurion prende il sopravvento. 700 mila palestinesi diventano profughi nei Paesi che li sostenevano Il Regno Unito vede con favore la fondazione in Palestina di un Focolare nazionale per il popolo ebraico
BALFOUR 1917 Cancellare dalla faccia della terra il cosiddetto Stato d’Israele
LEGA ARABA 1948
Rieccoci a Gerusalemme, sotto il sole cocente di quel 14 maggio 1948. Il battesimo di Israele si celebra con una breve e frugale assemblea in una modesta saletta del museo di Tel Aviv. Tutto in pochi minuti: il discorso di Ben Gurion e la firma di una pergamena che riproduce la dichiarazione d’indipendenza. Poi tutti in strada per un corteo festoso e improvvisato: in prima fila, al fianco di Ben Gurion, ci sono Golda Meir, Levy Eshkol, Yitzhak Rabin e altri padri fondatori che si alterneranno alla guida del Paese per oltre 40 anni. Piangono, ridono, si abbracciano con la folla in delirio che si unisce agli altoparlanti intonando l’Halikyah (“speranza”): l’inno ebraico, più simile a una preghiera che a una marcia.
Lo Stato di Israele è nato, anzi è rinato. La stirpe di Davide, dopo duemila anni, ha di nuovo la sua patria. È l’unico Stato democratico di tutto il Medio Oriente e viene subito riconosciuto ( tra gli altri) dall’Unione Sovietica e dagli Stati Uniti. Ma non c’è tempo per festeggiare.
Mentre ancora Ben Gurion sta parlando, i 6 eserciti della Lega Araba – Egitto, Libano, Siria, Transgiordania, Iraq e Arabia saudita – muo vono all’attacco da ogni punto cardinale per “cancellare dalla faccia della terra il cosiddetto Stato d’Israele”. L’Occidente solidarizza a parole, ma non muove un dito per difendere la risoluzione dell’Onu del 1947. Anche l’Urss condanna l’invasione ( l’organo ufficiale di Mosca, la Pravda, parla di “aggressione araba contro Israele” e difende “il diritto degli ebrei a costituirsi un loro Stato indipendente; l’Unità si accoda). Ma lì si ferma.
Dai lager all’esodo verso la Terra promessa
Israele deve imparare subito a combattere da solo, a mani nude. Tante mani, però: l’esodo del dopoguerra dell’Europa ha portato nella terra dei loro avi oltre 200 mila ebrei, scampati ai lager nazisti e ai pogrom russi. Sono approdati nella Terra promessa forzando il blocco britannico e andando ad aggiungersi ai 600mila che già vi risiedono. Un’iniezione di forze e di intelligenze fresche che fa di Israele il Paese con il più alto tasso di laureati, specialisti e tecnici del mondo. La loro competenza, il loro spirito organizzativo e la loro disperata volontà di sopravvivenza saranno l’arma in più del neonato esercito israeliano, l’Haga nah (“difesa”), capitanato da ufficiali giovani e agguerriti. Uno su tutti: il 33enne Moshe Dayan. Gli uomini non mancano. Scarseggiano però i quadri militari e gli armamenti: soprattutto l’artiglieria ( pochissimi cannoni), i mezzi corazzati e l’aeronautica (una trentina di vecchi aerei incollati con lo sputo). Perfino le uniformi. Non basta l’apporto di esperienza di due reparti speciali che affiancano le truppe regolari: il
Lehi e l’Ir gun , specializzati in azioni di terrorismo e antiterrorismo negli anni del mandato britannico e delle imboscate arabe. Troppo poco, almeno sulla carta, per fronteggiare l’esercito egiziano, la Legione Araba di Giordania guidata dal mitico Glubb Pascià, 4 divisioni siriane e irachene e un corpo di volontari libanesi e sauditi: 150 mila uomini in tutto, con 800 cannoni, 120 carri armati, 80 autoblindo e 150 aerei. Davide e Golia. È Davide che torna ad affrontare Golia, ma stavolta la fionda serve a poco. E infatti le prime ore di guerra, per Israele, sembrano l’inizio della fine. Le truppe egiziane, da Sud, affondano come il coltello caldo nel burro e giungono alle porte di Tel Aviv. Gli altri eserciti, da Nord, puntano su Gerusalemme e sul porto petrolifero di Haifa. L’Onu, però, riesce a imporre una tregua di 6 settimane. E quando gli arabi la violano, dopo un mese, ripartendo all’offensiva, non si ritrovano
più di fronte l’Armata Brancaleone raccogliticcia e male in arnese dei primi giorni. In quel breve lasso di tempo Israele è riuscito a mettere in piedi un miracolo di esercito e anche a procurarsi qualche arma pesante e qualche aereo in più, mentre migliaia di volontari – ebrei e non ebrei – sono sopraggiunti dai campi di battaglia di mezza Europa per dare una mano.
Gli egiziani vengono travolti sul fronte Sud da un blitz ribattezzato con nome biblico ed evocativo: “Op erazione Dieci Piaghe”. E anche a Nord gli altri eserciti arabi sono colti di sorpresa. S p i t f i r e israeliani, residuati bellici comprati al mercato del l’usato, sorvolano indisturbati le capitali siriana e transgiordana, Damasco e Amman, bombardandole. E i bazooka con la stella di David distruggono la metà dei carri armati nemici.
L’Onu ordina una seconda tregua e nomina mediatore il conte Folke Bernadotte, un diplomatico e filantropo svedese, nipote di re Gustavo IV. Mediatore si fa per dire: impone altre due tregue, ma parteggia apertamente per gli arabi. Di lui si occupa la banda Stern, organizzazione paramilitare sionista di estrema destra dove milita anche il futuro premier Yitzhak Shamir: il conte viene assassinato il 17 settembre a Gerusalemme. La tregua salta e la guerra ricomincia. L’H aganah affronta separatamente gli eserciti arabi e li sbaraglia l’uno dopo l’altro.
La prima guerra arabo- israeliana si conclude alla fine del 1948. Israele non solo ha riconquistato – dopo i rovesci iniziali – le posizioni di partenza, ma addirittura si è ingrandito di oltre un terzo, conquistando Gaza, l’intero Negev e la Galilea occidentale. Il bilancio delle vittime è pesante: 6 mila morti sul campo, di cui 2 mila civili, fra gli ebrei, e circa 10 mila arabi. Poi c’è l’esodo ( in arabo n a kb a , cioè letteralmente disastro, cataclisma, catastrofe) di al- meno 700 mila arabi palestinesi, musulmani e cristiani – spinti dagli orrori della guerra o dalla pressione della popolazione ebraica o dalla convinzione di un’imminente vittoria araba – a lasciare le città e i villaggi del territorio assegnato dall’Onu a Israele per emigrare nei Paesi arabi confinanti o nella Cisgiordania riservata al loro Stato. Che purtroppo non nascerà mai, anzitutto a causa della miopia dei governi arabi e della classe dirigente palestinese, interessati più ad abbattere Israele che a dare una casa ai palestinesi. Un esodo che darà origine alla piaga mai sanata dei campi profughi per molti dei rifugiati e i loro discendenti ( censiti nel 2015 dall’Onu in 5.149.742, sparsi fra i campi di Giordania, Cisgiordania, Striscia di Gaza, Siria e Libano). Anche perché, nel dicembre del 1948, l’Assemblea generale Onu approva la risoluzione 194 che consente “ai rifugiati che lo vogliano di tornare alle proprie case e vivere in pace coi loro vicini” e promette “indennizzi per le proprietà di quanti scelgano di non tornare”, ma a patto che arabi e israeliani siglino un trattato di pace. Cosa che non avverrà mai, per il rifiuto degli Stati arabi di riconoscere Israele. Armistizio, si fa per dire. Nel febbraio del 1949, infatti, dopo la Conferenza di Rodi, gli aggressori arabi sconfitti firmano con Israele, ciascuno per conto proprio, degli armistizi che riconoscono di fatto allo Stato ebraico la sovranità sui territori assegnati dall’Onu nel 1947, più quelli appena conquistati in battaglia. Tranne la Striscia di Gaza, che viene occupata militarmente dall’Egitto, così come la Cisgiordania dal Regno di Transgiordania. Gli armistizi verranno poi disconosciuti dagli stessi Paesi arabi che li avevano siglati e che muoveranno altre guerre a Israele per cancellarlo, invano, dalla carta geografica. E preferiranno usare i palestinesi nei campi profughi come arma contundente contro Tel Aviv e occupare le loro terre, anziché aiutarli a costruire il loro Stato. (ha collaborato Giulia Marchina)