Godard ritorna con un puzzle indecifrabile
a vera condizione dell’uomo è immaginare con le mani”.“Non conosco regole né eccezioni”. “Il cristianesimo è il rifiuto a conoscersi, la morte del linguaggio”. Oppure, in versi, “Come un sogno cattivo scritto su una notte tempestosa / Sotto occhi occidentali / I paradisi perduti / La guerra è qui”. Mesdames et Messieurs, Jean-Luc Godard è tornato a Cannes: non lui d’abitudine, ma il suo nuovo ufo, Le livre d’image. Quattro anni dopo Adieu au langage, altre picconate al cinema quale istanza narrativa, codice organico, tessuto senziente: JLG vuole affrancarlo, riscoprirne la sostanza pittorica e materica, lavorando su colori desaturati, sonoro ballerino, battute spezzate, ratio cambiate in corso d’opera, interpunzioni villane.
IL SUO LINGUAGGIO parrebbe prediligere la combinazione alla selezione, per mettere sullo schermo pensieri liberi e attendere sulle poltroncine spettatori pensanti: problema, agli indebiti tagli di montaggio corrispondono altrettanti invitati e giornalisti che tagliano la corda. Alla fine della proiezione di gala al Grand Théâtre Lumière arrivano gli applausi d’obbligo, ma siffatto collage errabondo, puzzle irrisolvibile, mosaico impossibile se li merita?
Che ce ne facciamo di questo magma immaginato, immaginario e però mai immaginifico? JLG fruga tra archivi e morale, il Salò di Pasolini e i western, l’Isis e l’Arabia Felix di Dumas, Un chien andalou e il Gassman dell’Armata Brancaleone, e mille lacerti, frammenti e scippi: a che pro? Non dà punti di riferimento, tranne l’essere se stesso, ancora in direzione ostinata e contraria a quasi 88 anni. Oggi è questo, domani non si sa, nel 1965 era Pierrot le fou, il cui bacio tra Jean- Paul Belmondo e Anna Karina fa da affiche al festival: talmente intrepido, inedito e, sì, refrattario e menefreghista, che non si capisce se ci fa o ci è, se il suo Livreè capolavoro o supercazzola, impresa o boiata pazzesca, e diremmo più la seconda. Uno che si nega – vedere per credere il recente Visages, villages – persino alla novantenne compagna di Nouvelle Vague Agnès Varda potrà mai concedersi alle nostre interpretazioni fragili, ermeneutiche carenti, opinioni irrichieste? Certo che no: “Je suis JLG”. Nel caso, gli preferiamo la Deneuve.
Anche JLG gareggia per la Palma, ma non c’è storia con il Casablanca d’Oltrecortina, il The Artist battente bandiera, e lingua, polac- ca: Cold War, Guerra fredda, con cui Pawel Pawlikowski ritrova la metà del XX secolo e il bianco e nero che hanno assicurato al suo Ida l’Oscar al film straniero nel 2015.
Il regista sconfessa che sia “la nostalgia la ragione che mi spinge a fare cinema”, nondimeno, “ai tempi del comunismo c’erano molti ostacoli e, si sa, l’amore ci va a nozze. Al contrario, oggi siamo tutti così distratti, sicché l’idea che tu veda qualcuno e il resto del mondo scompaia è impossibile da sostenere”. Chissà, per citare il Jim Jarmusch passato sulla Croisette nel 2013, se anche qui Solo gli amanti sopravvivono , di certo, la storia tra il pianista Wiktor ( Tomasz Kot, bravo) e la cantante e danzatrice Zula ( Joanna Kulig, super) è eroica nella misura in cui travalica epoche e, ancor più, confini: dalla fine degli anni 40 ai primi anni 60, dalla Polonia stalinista alla Berlino divisa, dalla Parigi bohémienalla Jugoslavia titina, si prendono, si perdono, si ritrovano, sfuggono.
E NOI APPESI, ché è un romanticismo amaro eppure dolce, disperato e ironico, trapassato e vivissimo, incardinato agli occhi, le bocche e i destini che si uniscono. Applausi di stampa e pubblico, Cold War merita assai e Pawlikowski rischia perfino di bissare agli Academy Awards.
Meno bene, decisamente, Plaire, aimer et courir vite (Sorry Angel) di Christophe Honoré, un altro melo- drammatico passo a due, stavolta omosessuale. Siamo nel 1990, lo scrittore quarantenne Jacques (Pierre Deladonchamps), parigino, malato, un figlio piccolo, lascia una porticina socchiusa sul futuro, a spalancarla con impeto e anelito è Arthur (Vincent Lacoste), che di anni ne ha quasi la metà e studia a Rennes: l’amore ai tempi dell’Aids ritrova Cannes solo dodici mesi dopo il militante 120 bpm di Robin Campillo, e se quello non era un capolavoro, ancor meno questo. Troppo lungo (due ore e rotti) e sfilacciato, toccante solo ai margini (il rapporto di Jacques col figlio, con l’amante morente e l’amico Mathieu, incarnato dal sempre superbo Denis Podalydés), ha belle sequenze nella prevalente mediocrità, intimismo più che intimità, e parecchia irresolutezza.
Come 120 bmn Non bene “Plaire, aimer et courir vite” di Cristophe Honoré, un altro drammatico passo a due, stavolta omosessuale che ripropone l’amore ai tempi dell’Aids