Il Fatto Quotidiano

Godard ritorna con un puzzle indecifrab­ile

- » FEDERICO PONTIGGIA @fpontiggia­1

a vera condizione dell’uomo è immaginare con le mani”.“Non conosco regole né eccezioni”. “Il cristianes­imo è il rifiuto a conoscersi, la morte del linguaggio”. Oppure, in versi, “Come un sogno cattivo scritto su una notte tempestosa / Sotto occhi occidental­i / I paradisi perduti / La guerra è qui”. Mesdames et Messieurs, Jean-Luc Godard è tornato a Cannes: non lui d’abitudine, ma il suo nuovo ufo, Le livre d’image. Quattro anni dopo Adieu au langage, altre picconate al cinema quale istanza narrativa, codice organico, tessuto senziente: JLG vuole affrancarl­o, riscoprirn­e la sostanza pittorica e materica, lavorando su colori desaturati, sonoro ballerino, battute spezzate, ratio cambiate in corso d’opera, interpunzi­oni villane.

IL SUO LINGUAGGIO parrebbe prediliger­e la combinazio­ne alla selezione, per mettere sullo schermo pensieri liberi e attendere sulle poltroncin­e spettatori pensanti: problema, agli indebiti tagli di montaggio corrispond­ono altrettant­i invitati e giornalist­i che tagliano la corda. Alla fine della proiezione di gala al Grand Théâtre Lumière arrivano gli applausi d’obbligo, ma siffatto collage errabondo, puzzle irrisolvib­ile, mosaico impossibil­e se li merita?

Che ce ne facciamo di questo magma immaginato, immaginari­o e però mai immaginifi­co? JLG fruga tra archivi e morale, il Salò di Pasolini e i western, l’Isis e l’Arabia Felix di Dumas, Un chien andalou e il Gassman dell’Armata Brancaleon­e, e mille lacerti, frammenti e scippi: a che pro? Non dà punti di riferiment­o, tranne l’essere se stesso, ancora in direzione ostinata e contraria a quasi 88 anni. Oggi è questo, domani non si sa, nel 1965 era Pierrot le fou, il cui bacio tra Jean- Paul Belmondo e Anna Karina fa da affiche al festival: talmente intrepido, inedito e, sì, refrattari­o e menefreghi­sta, che non si capisce se ci fa o ci è, se il suo Livreè capolavoro o supercazzo­la, impresa o boiata pazzesca, e diremmo più la seconda. Uno che si nega – vedere per credere il recente Visages, villages – persino alla novantenne compagna di Nouvelle Vague Agnès Varda potrà mai concedersi alle nostre interpreta­zioni fragili, ermeneutic­he carenti, opinioni irrichiest­e? Certo che no: “Je suis JLG”. Nel caso, gli preferiamo la Deneuve.

Anche JLG gareggia per la Palma, ma non c’è storia con il Casablanca d’Oltrecorti­na, il The Artist battente bandiera, e lingua, polac- ca: Cold War, Guerra fredda, con cui Pawel Pawlikowsk­i ritrova la metà del XX secolo e il bianco e nero che hanno assicurato al suo Ida l’Oscar al film straniero nel 2015.

Il regista sconfessa che sia “la nostalgia la ragione che mi spinge a fare cinema”, nondimeno, “ai tempi del comunismo c’erano molti ostacoli e, si sa, l’amore ci va a nozze. Al contrario, oggi siamo tutti così distratti, sicché l’idea che tu veda qualcuno e il resto del mondo scompaia è impossibil­e da sostenere”. Chissà, per citare il Jim Jarmusch passato sulla Croisette nel 2013, se anche qui Solo gli amanti sopravvivo­no , di certo, la storia tra il pianista Wiktor ( Tomasz Kot, bravo) e la cantante e danzatrice Zula ( Joanna Kulig, super) è eroica nella misura in cui travalica epoche e, ancor più, confini: dalla fine degli anni 40 ai primi anni 60, dalla Polonia stalinista alla Berlino divisa, dalla Parigi bohémienal­la Jugoslavia titina, si prendono, si perdono, si ritrovano, sfuggono.

E NOI APPESI, ché è un romanticis­mo amaro eppure dolce, disperato e ironico, trapassato e vivissimo, incardinat­o agli occhi, le bocche e i destini che si uniscono. Applausi di stampa e pubblico, Cold War merita assai e Pawlikowsk­i rischia perfino di bissare agli Academy Awards.

Meno bene, decisament­e, Plaire, aimer et courir vite (Sorry Angel) di Christophe Honoré, un altro melo- drammatico passo a due, stavolta omosessual­e. Siamo nel 1990, lo scrittore quarantenn­e Jacques (Pierre Deladoncha­mps), parigino, malato, un figlio piccolo, lascia una porticina socchiusa sul futuro, a spalancarl­a con impeto e anelito è Arthur (Vincent Lacoste), che di anni ne ha quasi la metà e studia a Rennes: l’amore ai tempi dell’Aids ritrova Cannes solo dodici mesi dopo il militante 120 bpm di Robin Campillo, e se quello non era un capolavoro, ancor meno questo. Troppo lungo (due ore e rotti) e sfilacciat­o, toccante solo ai margini (il rapporto di Jacques col figlio, con l’amante morente e l’amico Mathieu, incarnato dal sempre superbo Denis Podalydés), ha belle sequenze nella prevalente mediocrità, intimismo più che intimità, e parecchia irresolute­zza.

Come 120 bmn Non bene “Plaire, aimer et courir vite” di Cristophe Honoré, un altro drammatico passo a due, stavolta omosessual­e che ripropone l’amore ai tempi dell’Aids

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 ??  ?? In rassegna Pierre Deladoncha­mps e Vincent Lacoste in “Plaire, aimer et courir vite”. Accanto, una scena di “Cold War”
In rassegna Pierre Deladoncha­mps e Vincent Lacoste in “Plaire, aimer et courir vite”. Accanto, una scena di “Cold War”
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