Il Fatto Quotidiano

I vecchi poteri avanzano compatti per la nuova Cdp

- » GIORGIO MELETTI

Esaurita la febbrile trattativa a quattro (Lega, M5S, Berlusconi, Quirinale) sui nomi dei ministri, il primo nodo da sciogliere per il governo Di Maio-Salvini sarà la scelta dei vertici della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). I tecnicismi nascondono al popolo che lì c’è il potere vero. Sarebbe quindi utile che almeno su questo il nuovo governo ( se riuscisse a nascere) fosse davvero populista, cioè trasparent­e. I primi segnali non sono incoraggia­nti. L’instancabi­le Luigi Bisignani, amico del presidente uscente Claudio Costamagna, ha dato a Matteo Salvini il consiglio inequivoca­bile di non perdere l'occasione “di condiziona­re il governo con i suoi uomini non solo nell’esecutivo ma anche nelle società partecipat­e, dalla Cassa Depositi e Prestiti fino alla Rai, senza il rischio di sporcarsi le mani”. Questa è la musica. Pentastell­ati in preda a governismo infantile muoiono dalla voglia di ballarla.

La Cdp è la vera cassaforte dello Stato. Raccoglie 250 miliardi di risparmio postale e ne gira 150 allo Stato depositand­oli nel cosiddetto conto di Tesoreria. Lo Stato paga a Cdp interessi maggiori di quelli che Cdp dà ai risparmiat­ori. Due anni fa il governo Renzi ha aumentato il tasso pagato a Cdp. Il margine di interesse (la differenza tra i tassi percepiti e quelli pagati) è cresciuto dai 905 milioni del 2015 ai tre miliardi del 2017. Due miliardi in più. L’utile netto di Cdp è cresciuto solo di 1,2 miliardi. Gli 800 milioni di differenza è quanto ogni anno la Cassa può spendere per fare il nuovo Iri. Sono i soldi che le consentono di essere azionista dell’Eni, delle Poste e della Saipem, ma anche della Kedrion del capogruppo Pd al Senato Andrea Marcucci, della Inalca Carni (gruppo Cremonini) e degli hotel di Rocco Forte. Un minestrone nel quale neppure uno chef stellato sarebbe in grado di riconoscer­e un sapore di logica industrial­e.

COSTAMAGNA VORREBBE restare. Il banchiere d’affari ex Goldman Sachs nel 2015 fu trasformat­o da Matteo Renzi in servitore dello Stato. Dopo le perplessit­à iniziali sembra aver scoperto che il potere è più attraente del denaro, soprattutt­o quando ne hai già accumulato abbastanza. Ma la sua posizione appare compromess­a. Il premier uscente Paolo Gentiloni aveva già storto il naso quando ha saputo che Cdp l’anno scorso ha prestato 300 milioni al gruppo arabo Meydan per finanziare un centro commercial­e a Dubai la cui costruzion­e è stata affidata alla Salini Impregilo. È normale che Cdp finanzi la committenz­a straniera per le aziende italiane (anche se sarebbe più sensato sostenere le commesse per le fabbriche italiane di Finmeccani­ca e Fincantier­i che i muratori di Dubai). Meno normale che Costamagna, presidente di Salini Impregilo fino al giorno in cui passò a Cdp, sia oggi consiglier­e della holding Athena attraverso la quale Pietro Salini controlla il gruppo. A compromett­ere definitiva­mente la posizione di Costamagna è stata la maldestra gestione dell’operazione Tim, con gli 800 milioni di risparmio postale spesi per comprare il 5 per cento della società telefonica e consentire al fondo Elliott di scalzare dal controllo la francese Vivendi. Il regista di Elliott è stato Paolo Scaroni, ex ad dell’Eni, oggi imputato con Bisignani nel processo per corruzione internazio­nale in Nigeria.

Perse le speranze per Costamagna e anche per l’incolore ad Fabio Gallia, è pronto un piano B per garantire la continuità: nominare amministra­tore delegato l’attuale direttore finanziari­o Fabrizio Palermo e direttore generale l’attuale capo del settore immobiliar­e Salvatore Sardo, già stretto collaborat­ore di Scaroni all’Eni. M5S e Lega hanno già dato segnali di disponibil­ità. Il nuovo che avanza.

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