PARTITI: C’È CHI CHIEDE PIÙ POTERE PER I CAPI
Se in questi ultimi mesi in Italia si è capito qualcosa, ammesso, appunto, che qualcosa si sia capito, è che siamo ormai al culmine della degenerazione della cosiddetta partitocrazia ( a sua volta frutto di una degenerazione del Parteienstaat ) in un regime che non si può definire altrimenti che “capi-partitocrazia” perché si basa sulla completa esautorazione dei partiti per opera e virtù dei loro capi. Non semplicemente protagonisti, ma unici attori dell’imbarazzante spettacolo andato in scena dopo le elezioni sono stati e sono leader e leaderini passati, presenti e futuri.
SONO STATI LORO a decidere quali fossero le cose da fare o da non fare, da volere fortissimamente e poi non volere più, salvo rivolerle subito dopo, senza stare a perder tempo per consultare ogni volta organi collegiali, iscritti, militanti, o per interloquire con loro, se non altro prima di cambiare fronte a sorpresa (stavo per dire a tradimento). Deve perciò aver visto un altro spettacolo il professor Panebianco se in un editoriale del Corriere della Sera ha potuto sostenere che quello che è successo o non è successo in questi mesi è da imputare all’intralcio costituito per i leader dai militanti dei loro partiti. L’analisi può sembrare stupefacente, ma mai quanto la conclusione tratta- ne: basterebbe che i leader dicessero ai militanti (testualmente): “Cari fan, addio ”( vale adire, bando agli eufemismi, che li mandassero a quel paese una volta per tutte) e decidessero di decidere sempre come pare a loro, e tutto andrebbe per il meglio. Trait- d’ uni on tra analisi e conclusione, evidentemente, una concezione del partito che non fa distinzioni tra schieramento politico e schieramento oplitico, visto che il primo può, e anzi deve essere uguale al secondo: non un’associazione di esseri pensanti accomunati da affinità ideologiche e da una gerarchia di valori condivisa, cioè, ma una falange macedone di gregari allineati e coperti, usi a obbedir tacendo (o anche parlando, ma solo per dire che il Capo ha sempre ragione). A parte questo, la tesi d Pa- nebianco ha due piccoli difetti.
Il primo è che si basa su un’indebita generalizzazione di osservazioni che potrebbero valere, se valessero qualcosa, solo per il Pd, unico partito nel quale gli ordini del capo possono aver incontrato qualche labile resistenza subito rientrata. O forse Berlusconi, Salvini, Di Maio hanno mai dato l’impressione di essere ostaggio dei loro partiti? L’altro difetto è che in realtà essa non vale neanche per il Pd, ai cui militanti si può rimproverare di tutto, ma non di aver costretto Renzi a fare o non fare come volevano loro invece che come voleva lui; sicché essi non potrebbero non andare assolti dalle accuse di Panebianco “perché il fatto non sussiste”. Non un’eccessiva riottosità andrebbe loro addebitata, ma l’eccessiva arrendevolezza con cui, bon gré mal gré, non hanno mancato di fare la loro parte nella riduzione di uno schieramento politico a uno schieramento oplitico (oltre tutto pieno di milites gloriosi), cosa giustificabile solo a condizione di credere che “Dio fa uscire di senno quelli che vuole perdere”, o, come in questo caso è più appropriato dire, “quelli che vuole far perdere”.
Il non detto dell’editoriale di Panebianco era presumibilmente che una volta liberatisi della za- vorra costituita dalla base dei loro partiti i leader potrebbero “mettersi attorno a un tavolo” (espressione, in effetti, a loro cara: et pour cause) e lì, oltre a farsi qualche mano di bridge o, più verosimilmente, di tressette, rifare l’Italia in quattro e quattr’otto. Anzi in quattro soltanto: Berlusconi, Salvini, Renzi e Di Maio. Tutta gente di collaudata affidabilità: chi può negarlo?
VERREBBE DA pensare che Panebianco abbia voluto adottare un registro ironico e paradossale per dire il contrario di quello che sembra. Ma non deve essere stato così se ventiquattro ore dopo il suo editoriale, sul Corrierene è apparso un altro di Ferruccio de Bortoli che suona come una netta presa di distanze da esso, testimoniata anche dai rispettivi titoli: da un lato I militanti che frenano i partiti (l’editoriale di Panebianco), dall’altro I partiti così poco democratici( quello di de Bortoli), se per il primo il difetto dei partiti attuali è di essere troppo … democratici, con conseguenze paralizzanti per le loro leadership, per il secondo è quello di esserlo troppo poco, cosa da ritenere incostituzionale ex art. 49 della Costituzione (nb: “ex art. 49” non significa affatto che l’art. 49 è ormai venuto meno, come qualcuno potrebbe credere) nel quale è previsto che i partiti concorrano a determinare la politica nazionale con metodo democratico. Ecco, proprio nell’insistito (oltre che sacrosanto) richiamo all’art. 49 è forse il solo limite del contro-editoriale, di de Bortoli, che rischia di provocare nell’innominato destinatario della lezione che esso contiene una reazione come “uff a, sempre con questa benedetta Costituzione…”