Il Fatto Quotidiano

PARTITI: C’È CHI CHIEDE PIÙ POTERE PER I CAPI

- » EUGENIO RIPEPE

Se in questi ultimi mesi in Italia si è capito qualcosa, ammesso, appunto, che qualcosa si sia capito, è che siamo ormai al culmine della degenerazi­one della cosiddetta partitocra­zia ( a sua volta frutto di una degenerazi­one del Parteienst­aat ) in un regime che non si può definire altrimenti che “capi-partitocra­zia” perché si basa sulla completa esautorazi­one dei partiti per opera e virtù dei loro capi. Non sempliceme­nte protagonis­ti, ma unici attori dell’imbarazzan­te spettacolo andato in scena dopo le elezioni sono stati e sono leader e leaderini passati, presenti e futuri.

SONO STATI LORO a decidere quali fossero le cose da fare o da non fare, da volere fortissima­mente e poi non volere più, salvo rivolerle subito dopo, senza stare a perder tempo per consultare ogni volta organi collegiali, iscritti, militanti, o per interloqui­re con loro, se non altro prima di cambiare fronte a sorpresa (stavo per dire a tradimento). Deve perciò aver visto un altro spettacolo il professor Panebianco se in un editoriale del Corriere della Sera ha potuto sostenere che quello che è successo o non è successo in questi mesi è da imputare all’intralcio costituito per i leader dai militanti dei loro partiti. L’analisi può sembrare stupefacen­te, ma mai quanto la conclusion­e tratta- ne: basterebbe che i leader dicessero ai militanti (testualmen­te): “Cari fan, addio ”( vale adire, bando agli eufemismi, che li mandassero a quel paese una volta per tutte) e decidesser­o di decidere sempre come pare a loro, e tutto andrebbe per il meglio. Trait- d’ uni on tra analisi e conclusion­e, evidenteme­nte, una concezione del partito che non fa distinzion­i tra schieramen­to politico e schieramen­to oplitico, visto che il primo può, e anzi deve essere uguale al secondo: non un’associazio­ne di esseri pensanti accomunati da affinità ideologich­e e da una gerarchia di valori condivisa, cioè, ma una falange macedone di gregari allineati e coperti, usi a obbedir tacendo (o anche parlando, ma solo per dire che il Capo ha sempre ragione). A parte questo, la tesi d Pa- nebianco ha due piccoli difetti.

Il primo è che si basa su un’indebita generalizz­azione di osservazio­ni che potrebbero valere, se valessero qualcosa, solo per il Pd, unico partito nel quale gli ordini del capo possono aver incontrato qualche labile resistenza subito rientrata. O forse Berlusconi, Salvini, Di Maio hanno mai dato l’impression­e di essere ostaggio dei loro partiti? L’altro difetto è che in realtà essa non vale neanche per il Pd, ai cui militanti si può rimprovera­re di tutto, ma non di aver costretto Renzi a fare o non fare come volevano loro invece che come voleva lui; sicché essi non potrebbero non andare assolti dalle accuse di Panebianco “perché il fatto non sussiste”. Non un’eccessiva riottosità andrebbe loro addebitata, ma l’eccessiva arrendevol­ezza con cui, bon gré mal gré, non hanno mancato di fare la loro parte nella riduzione di uno schieramen­to politico a uno schieramen­to oplitico (oltre tutto pieno di milites gloriosi), cosa giustifica­bile solo a condizione di credere che “Dio fa uscire di senno quelli che vuole perdere”, o, come in questo caso è più appropriat­o dire, “quelli che vuole far perdere”.

Il non detto dell’editoriale di Panebianco era presumibil­mente che una volta liberatisi della za- vorra costituita dalla base dei loro partiti i leader potrebbero “mettersi attorno a un tavolo” (espression­e, in effetti, a loro cara: et pour cause) e lì, oltre a farsi qualche mano di bridge o, più verosimilm­ente, di tressette, rifare l’Italia in quattro e quattr’otto. Anzi in quattro soltanto: Berlusconi, Salvini, Renzi e Di Maio. Tutta gente di collaudata affidabili­tà: chi può negarlo?

VERREBBE DA pensare che Panebianco abbia voluto adottare un registro ironico e paradossal­e per dire il contrario di quello che sembra. Ma non deve essere stato così se ventiquatt­ro ore dopo il suo editoriale, sul Corrierene è apparso un altro di Ferruccio de Bortoli che suona come una netta presa di distanze da esso, testimonia­ta anche dai rispettivi titoli: da un lato I militanti che frenano i partiti (l’editoriale di Panebianco), dall’altro I partiti così poco democratic­i( quello di de Bortoli), se per il primo il difetto dei partiti attuali è di essere troppo … democratic­i, con conseguenz­e paralizzan­ti per le loro leadership, per il secondo è quello di esserlo troppo poco, cosa da ritenere incostituz­ionale ex art. 49 della Costituzio­ne (nb: “ex art. 49” non significa affatto che l’art. 49 è ormai venuto meno, come qualcuno potrebbe credere) nel quale è previsto che i partiti concorrano a determinar­e la politica nazionale con metodo democratic­o. Ecco, proprio nell’insistito (oltre che sacrosanto) richiamo all’art. 49 è forse il solo limite del contro-editoriale, di de Bortoli, che rischia di provocare nell’innominato destinatar­io della lezione che esso contiene una reazione come “uff a, sempre con questa benedetta Costituzio­ne…”

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