Air France soffre, ma sta molto meglio di Alitalia
Parigi ha un problema. Si chiama Air France. Ma il problema non è che Air France è come Alitalia, bensì che non riesce a essere come Lufthansa. Nei giorni scorsi sui media italiani si è diffusa l’interpretazione errata che il vettore francese stia vivendo una crisi simile a quella di Alitalia. Questa diagnosi è basata su due sintomi ingannevoli: l’elevata conflittualità sindacale, che ha portato a una impressionante serie di scioperi a distanza ravvicinata e, soprattutto, un’affermazione del ministro francese dell’Economia Bruno Le Maire identica a una precedente, ripetuta in più occasioni dal ministro italiano dello sviluppo economico Carlo Calenda: entrambi non vogliono più dare soldi dei rispettivi contribuenti al vettore di bandiera. Peccato che l’identica affermazione nasconda contesti radicalmente differenti.
LO STATO FRANCESE possiede poco meno del 15 per cento del gruppo Air France-Klm e non vorrebbe essere chiamato a contribuire a futuri aumenti di capitale indotti dall’incapacità del vettore di essere competitivo col principale rivale, il gruppo Lufthansa. È la legittima scelta di qualunque azionista. Invece il ministro italiano, non volendo dare più un euro del contribuente ad Alitalia, vettore privato portato al fallimento dai suoi azionisti, in realtà di euro ne ha dati ben 900 milioni, materialmente erogati dal suo collega dell’Economia, sotto forma di prestito ponte verso cui la Commissione europea ha aperto u n’indagine, sospettando che si tratti di un aiuto di stato non conforme al diritto comunitario. Dunque gli effetti per i contribuenti sui due versanti delle Alpi non sono esattamente gli stessi.
Bi sogn ere bbe anche ricordare che Alitalia ha registrato perdite crescenti in questi anni, compreso il 2017, gestito per otto mesi su dodici dai commissari straordinari nominati da Calenda. Anche se l’ultimo bilancio depositato è quello del 2015, non avendo i commissari pubblicato alcun dato uffi- ciale da quando sono in servizio, è stato possibile ricostruire i conti della gestione industriale per il biennio successivo: il risultato industriale consolidato del gruppo Alitalia è stato negativo per circa 150 milioni nel 2015, 340 milioni nel 2016 e 500 nel 2017, per un totale di quasi un miliardo. La perdita totale è stata molto più ampia e prossima a 1,3 miliardi nel triennio. Invece il gruppo Air France- Klm ha avuto nel 2017 un risultato industriale positivo per 1,5 miliardi, valore che sale a 3,3 miliardi nell’intero triennio. Anche in questo caso non è esattamente la stessa situazione. Air France va benissimo rispetto ad Alitalia ma non altrettanto e il gruppo Lufthansa 730 aerei complessivi.
Alitalia ha meno di 12 mila dipendenti ma solo 10 mila lavorano effettivamente, gli altri sono in cassa integrazione con un costo per le casse pubbliche, sempre a proposito di euro dei contribuenti, stimabile in 50 milioni nel 2017 e circa 80 nell’anno in corso. Senza questo ulteriore sostegno pubblico il conto economico di Alitalia sarebbe risultato peggiore per un importo almeno equivalente.
Invece il gruppo franco olandese occupa 84 mila persone e quello tedesco 129 mila, oltre dieci volte Alitalia, di cui solo poco più di metà in Germania e i restanti in una cinquantina di altri paesi. Solo nel 2017 i dipendenti di Lufthansa sono cresciuti di 5 mila unità e rispetto a due anni prima sono 9 mila in più. E’ un numero maggiore dei dipendenti di Alitalia che Lufthansa è disponibile ad accollarsi se andasse a buon fine la sua proposta di acquisto.
AIR FRANCE E ALITALIA non sono certo compagnie gemelle, afflitte da problemi simili. Se per magia Alitalia potesse scambiare i suoi problemi con quelli di Air France farebbe un grandissimo affare e non avrebbe più bisogno né dei commissari straordinari né di altri soldi pubblici. Gli 84 mila dipendenti di Air France-Klm sono i più pagati in Europa. Infatti il gruppo ha speso lo scorso anno per i lavoratori complessivamente 7,6 miliardi di euro, 91 mila euro in media per dipendente. Non si può dunque dire che abbiano avuto ragione a respingere attraverso il referendum ulteriori aumenti retributivi, ritenendoli insufficienti. Forse ignorano che i loro colleghi tedeschi, molto più numerosi, sono costati solo 8,2 miliardi, per un costo medio unitario di soli 64 mila euro, sicuramente calmierato dai dipendenti fuori Germania. Anche i dipendenti di Alitalia lo scorso anno hanno votato no al referendum ma con esso hanno respinto tagli drastici ai livelli retributivi e a quelli occupazionali che avrebbero dovuto ridurre a regime il costo del lavoro del 30 per cento. Non esattamente la stessa situazione.
Milioni Il prestito ponte su cui la Ue ha aperto un’indagine