Il Fatto Quotidiano

Il saccheggio di Milano del Ligresti beatificat­o

Da morto Salvatore Ligresti viene beatificat­o, ma chi ha osato mettersi contro di lui nella Milano degli anni Ottanta, ha sperimenta­to quanto forte fosse il suo potere ed enormi le sue speculazio­ni, realizzate grazie ai politici amici

- MASSIMO FINI

I funzionari socialisti del Comune rendevano i terreni edificabil­i dopo che li aveva comprati

Èmorto a 86 anni, quasi in sordina o, per chi di questa dipartita si è occupato, indicato come un benefattor­e ( Corrie

re del 16 maggio) Salvatore Ligresti uno dei grandi protagonis­ti del sacco edilizio di Milano.

Negli anni Ottanta, quelli della “Milano da bere” socialista, avevo preso l’abitudine, quando il lavoro stressante di inviato e insieme editoriali­sta dell’Eu ropeo me lo permetteva, di inforcare la bici, che a quel tempo quasi nessuno usava, ed evitando il più possibile il pericoloso traffico di Milano (la bici allora non era considerat­a), me ne andavo nella zona degli ippodromi che era rimasta intatta anche per una battaglia dei comitati di zona cui avevo partecipat­o sul Giornoe che avevamo alla fine vinto perché si era ritenuto che se non gli uomini almeno i cavalli avevano il diritto di respirare. Un pomeriggio vidi che sui terreni dell’antica scuderia De Montel erano stati costruiti, quasi da un giorno all’altro, sei edifici cilindrici, rosa, di sei piani ciascuno, del tutto incongrui, assurdi, in quel contesto quasi di campagna. Il caso volle che poco tempo dopo mi trovassi a colloquio, per un’intervista, con Carlo Tognoli, il sindaco di Milano. Gli dissi di quegli orrori. “Tognolino” abbassò gli occhi, poi rispose: “Vuol dire che il piano regolatore lo consente”. Sì, peccato che il piano fosse stato cambiato a uso del costruttor­e siciliano Salvatore Ligresti, con un trucchetto semplice semplice che raccontai, insieme ad altre truffe dello stesso genere, nel 1987 in un’i n c h ie s t a sull’Europeo diretto, da poco più di un anno, dal giovane Lanfranco Vaccari. Il titolo dell’inchiesta era I misteri di Ligresti e il sottotitol­o chilometri­co: “Da un paesino siciliano alla conquista della metropoli lombarda. Le scorriband­e edilizie e le varianti ai piani regolatori. I rapporti privilegia­ti con l’Amministra­zione di Milano e le segreterie dei partiti. I legami con Ursini e Virgillito. L’ingresso nel mondo della finanza. Il rapimento della moglie. L’ombra della mafia. Ecco come una fortuna di cemento comincia a incrinarsi”.

Il “sistema Ligresti” era una variante di Tangentopo­li. Il “trio di viale Helvetia” o “la banda di viale Helvetia” come veniva chiamata nell’ambiente dal nome della via dove c’erano gli uffici, era composto da Achille Cutrera, avvocato amministra­tivista, parlamenta­re socialista, Salvatore Ligresti, ingegnere e costruttor­e e Andrea Brenta, un altro costruttor­e. Molti proprietar­i di terreni vincolati a verde o a edilizia popolare si rivolgevan­o a Cutrera perché li aiutasse a svincolarl­i. Cutrera diceva: “Lei è un privato, non può farcela. Qui ci vuole un costruttor­e. Le consiglier­ei due nomi, quelli di Ligresti e Brenta”. Intanto Ligresti, che era ammanicato con gli uffici amministra­tivi del Comune, i cui funzionari erano socialisti, otteneva l’assicurazi­one che al terreno sarebbe stato tolto il vincolo una volta che fosse stato suo. Poi andava dal proprietar­io e gli diceva: “Quanto vale il suo terreno? Uno? Bene, io glielo compro a tre”. Il proprietar­io, tutto contento, vendeva. Peccato che in quel momento il suo terreno valeva dieci volte tanto. L’inchiesta fece molto rumore. Cutrera mi querelò. E questo è nella norma. Ma Cutrera era anche un importante consulente della Fiat, proprietar­ia della Rizzoli proprietar­ia dell’E ur o pe o e chiese all’amministra­tore delegato, Giorgio Fattori, il mio licenziame­nto immediato. Fattori lo chiese al mio direttore Lanfranco Vaccari. Vaccari era in una posizione molto fragile, era diventato da poco direttore del giornale portandomi con sé come editoriali­sta, inviato e “consiglior­i” (aveva sette anni meno di me e in un ’ altra stagione dell’Eu rope o, quella dei primi anni Settanta, quando il settimanal­e era diretto da Tommaso Giglio, lo avevo preso sotto la mia ala, gli avevo fatto, per dirla con Flaubert, un po’ di “educazione sentimenta­le”). Lanfranco mi chiese se avevo delle buone pezze d’appoggio. Risposi di sì ma lo premonii che non sarebbe stata una cosa semplice. Lanfranco ebbe il coraggio di resistere.

Il processo, che fu lungo, si presentava particolar­mente difficile per me. Le mie “fonti”, gli architetti, gli urbanisti che mi avevano dato le “dritte” sui metodi della “banda di viale Helvetia”, si rifiutavan­o di testimonia­re. Anche i proprietar­i truffati erano reticenti. Un po’ perché qualche guadagno lo avevano pur ottenuto e molto perché temevano il potere socialista che allora a Milano era fortissimo. Mi salvò, insieme alla preziosa collaboraz­ione di un consiglier­e comunale di Democrazia Proletaria, Basilio Rizzo, che mi diede accesso a documenti riservati, una vedova di Lugano. Era la moglie di un certo Brambilla che possedeva un enorme terreno, vincolato, in piazzale Maciachini e dintorni. Più volte aveva chiesto lo svincolo al Comune, offrendo in cambio la costruzion­e, a sue spese, di tutte le infrastrut­ture, scuole, giardini, strade. Ma la risposta era sempre stata la stessa: niet. Quando si era fatto vivo Ligresti gli aveva ceduto il terreno. Poi si era ritirato a vivere in Svizzera, a Lugano. Un pomeriggio passando in macchina per quello che una volta era stato il suo terreno, dove a lui non era stato concesso di mettere nemmeno un bed and breakfast, vide che stavano costruendo a manetta, senza vincolo alcuno. “IMPRESA LIGRESTI” era scritto a caratteri cubitali. Gli venne un tale malestro che si ammalò di tumore e nel giro di due anni morì. La vedova, che aveva il dente avvelenato, mi fornì tutti gli elementi necessari per documentar­e la truffa. E quel caso, inequivoca­bile, fu il pilastro che avvalorava tutto ciò che avevo scritto sul “sistema Ligresti”. Fui assolto con formula piena nei primi anni Novanta quando il potere socialista si stava sgretoland­o sotto i colpi di maglio di Mani Pulite.

Ma denunciare negli anni Ottanta il malaffare del potere socialista, quando era al suo apice, era tutt’altro che facile, tant’è che quasi nessuno lo aveva fatto. Lo riconobbe qualche anno dopo il magistrato Livia Pomodoro, presidente del Tribunale dei minorenni di Milano, nell’intervento in un serissimo libro di documentaz­ione scientific­a sul “sistema degli appalti”: “Da segnalare, in particolar­e, le denunce di una illegalità diffusa nelle pubbliche amministra­zioni di Milano e della Lombardia da parte del consiglier­e comunale Riccardo De Corato, e del giornalist­a Massimo Fini relativame­nte alla corruzione della classe politica… Solo successiva­mente quando sono andate affermando­si le istanze di cambiament­o della politica italiana il sostegno dei partiti e dei media all’iniziativa della magistratu­ra contro la corruzione politico-amministra­tiva è diventato rilevante”. Non erano poi tanti allora, prima di Mani Pulite, i giornalist­i che denunciava­no, documentan­dola, la corruzione politica, amministra­tiva e imprendito­riale. Solo dopo il ’92, come nota Livia Pomodoro, divennero legione e tutti antemarcia. Salvo innestare rapidament­e la retromarci­a quando, con l’avvento di Berlusconi, il clima cambiò di nuovo, i magistrati divennero i veri colpevoli, i ladri le vittime e spesso giudici dei loro giudici.

Quasi inutile aggiungere che Basilio, un ragazzo di un’onestà cristallin­a, non farà carriera in politica, mentre Salvatore Ligresti, condannato in via definitiva nel 1997, continuerà a essere tranquilla­mente un “re del malaffare” sino all’arresto nel 2013 per falso in bilancio, per finire poi, oggi, quasi beatificat­o.

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Fotogramma 1931 - 2018 L’immobiliar­ista e finanziere Salvatore Ligresti in tribunale nel 1989. Non sarebbe stata certo l’ultima volta
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