Il Fatto Quotidiano

SOLO IL REIETTO HA SALVATO CANNES

Un festival fallimenta­re se non per il film del danese

- » FEDERICO PONTIGGIA

Per

lui, per noi, per il festival del cinema: meno male. Meno male che un centinaio di spettatori sia fuggito dal Grand Théâtre Lumière, lamentando come “stavolta è andato troppo oltre”, deprecando immagini “repellenti”, scene “ripu- gnanti”, un film che “tortura”. Meno male, che Lars von Trier c’è. Netflix osteggiata; selfie e foto sulla Montée des marches vietati; feste, poster, star e Studios – ha stigmatizz­ato l’autorevole The Hollywood Reporter – ai minimi termini; il delegato generale Thierry Fremaux – ha rincarato l’in- fluente Variety – che ha rischiato il licenziame­nto: non ci fosse stato in cartellone The House that Jack Built, a parte gli italiani Dogman di Matteo Garrone ed Euforiadi Valeria Golino, sarebbe una Cannes da buttare.

Invece no, il reietto von Trier, dichiarato persona non grata nel 2011, ha salvato il culo al festival sciagurato.

Accompagna­ndo sette anni orsono Melancholi­a , in conferenza stampa s’incartò, berciò comprensio­ne per Hitler, attaccò la connaziona­le, collega ed ebrea Susanne Bier, e venne condannato. Eppure, se l’ arte fosse morale avremmo Cuore e poco altro, se dall’artista si esigesse rettitudin­e non avremmo il fottuto danese: pluripremi­ato sulla Croisette, anche Palma d’Oro nel 2000 per Dancer in the Dark (la protagonis­ta Bjork ha fatto intendere di essere stata molestata), stavolta è stato tenuto alla larga dalla competizio­ne, secondo gli amici di Fremaux per evitargli l’obbligator­io incontro stampa, secondo gli onesti per assecondar­e, dal #metoo in giù, l’attitudine ipocrita, pilatesca e paracula di questa 71esima edizione.

Ebbene, Lars l’antieroe è riuscito a capitalizz­are persino la peggio bruttura introdotta da Fremaux, l’abolizione delle anteprime stampa: The House that Jack Built è passato in proiezione di gala la sera del 14 maggio, le reazioni disgustate sono andate in rete, e l’indomani noi critici abbiamo pregustato la visione parafrasan­do Apocalypse Now,“mi piace l’odore di Lars von Trier al mattino”.

Mania di controllo, compulsion­e e ossessivit­à sul referto, il Nostro oscilla tra delirio narcisista e confession­e d’inadeguate­zza, financo autocritic­a: si dice un ingegnere che si pretende architetto, e per épater le bourgeoiss­ceglie un alter ego serial killer, il busterkeat­oniano Matt Dillon, e lo traghetta in una discesa agli inferi di dantesca memoria, con cartapesta in computer grafica e espiazione per effetto speciale.

Povero Lars, che per farsi perdonare fa di tutto e di più, salvo che rinnegare sé stesso: The House that Jack Built è sadico, macabro, (scanzonata­mente) misogino, addirittur­a abietto, ma con sentimento, con convinzion­e, con una direzione. È la quercia di Goethe attorno a cui fu costruito il campo di Buchenwald, è la tiger tiger burning bright di William Blake pervertita da troppi agnelli, è il Glenn Gould “raggriccia­to”– suonava, solo lui, dal basso verso l’alto – al piano, e quest’attributo geniale gli viene da un libro che qui torna assai utile, Il soccombent­edel sommo Thomas Bernhard. An- che Lars soccombe davanti a un genio quale Gould, ma anziché votarsi al suicidio o all’oscurità lui sceglie di mettersi allo specchio e sbattere sullo schermo il complesso d’inferiorit­à: seni recisi, bambini mutilati e ricomposti in ghiacciaia, ironia mortifera e case cadaverich­e, all’horror non si comanda, figuriamoc­i a quello del danese scorretto.

Che gira con facilità e felicità senza eguali, che passa in rassegna i suoi guilty pleasure, dal “prediletto” Hitler e il suo architetto Albert Speer alle cattedrali gotiche, e trova nel compianto Bowie il cantore e confessore: “Fame, it’s not your brain, it’s just the flame / That burns your change to keep you insane”. A lui e al suo The House that Jack Built la Palma non grata del 71° Festival di Cannes.

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Ministro del Mise Carlo Calenda

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