Il condannato Mori si autoassolve: “Io incazzato”
Trattativa Stato-mafia Prima uscita pubblica dopo la sentenza, all’assemblea del Partito radicale
“Sono
incazzato”, mostra i muscoli Mario Mori. L’ex generale arriva alla storica sede radicale di via Torre Argentina, a Roma, per l’assemblea che lo celebra dopo la condanna a 12 anni nel processo Trattativa Stato-mafia.
Per il Partito radicale di Maurizio Turco e Sergio d’Elia ( da non confondere più con i Radicali italiani di Emma Bonino e Riccardo Magi) la “giustizia giusta” va invocata, in nome di Marco Pannella ed Enzo Tortora, applaudendo Mori e Giuseppe De Donno, quel Ros dei carabinieri al centro dell’inchiesta della Procura di Palermo. Una sessantina di persone nello stan- zone dove, nel maggio di due anni fa, venne allestita la camera ardente di Marco Pannella.
E, appunto, applausi. Quando Mori arriva, quando Mori parla: “Non sono un traditore dello Stato, non sono un fellone”, misura il tono della voce ma non troppo le parole: “Sono incazzato”. Perché, per Mori, 79 anni, è inaccettabile esser stato “per più di quarant’anni un servitore dello Stato da ufficiale dei carabinieri in servizio permanente e da quindici anni ormai imputato permanente”. Ma non si arrende “il gen er al e”, come lo chiamano ancora qui, da Maurizio Gasparri a Fabrizio Cicchitto, luogotenente berlusconiano di sempre il primo, poi al centrosinistra il secondo, presenti per l’occasione. Non si arrende perché “ho bisogno di un nemico, mi piace l’agonismo: continuo a lottare sino in fondo, so che vincerò”. I giudici di Palermo, accogliendo la tesi della Procura, hanno stabilito che fu proprio il Ros dei carabinieri l’anello della Trattativa tra Stato e mafia, portando alle istituzioni le richieste di Cosa nostra. Mori racconta la sua versione, secondo la quale i guai per lui e i suoi uomini sarebbero cominciati nel 1989, “quando il Ros avvia l’inchiesta cosiddetta mafia-appalti scoprendo l’esistenza di un direttorio costituito da boss, imprenditori e politici che gestiva gli appalti pubblici in Sicilia ed altrove. Dell’indagine s’interessò Giovanni Falcone, che insistette perché consegnassimo l’informativa, ma noi non eravamo convinti, volevamo più tempo. Alla fine ci convinse e l’inchiesta per 3-4 mesi sparì nel nulla, finché nel 1991 la procura emise 5 ordinanze di custodia cautelare: la montagna aveva partorito il topolino.
L’inform ativa fu consegnata agli avvocati ed a quel punto anche la mafia seppe dove eravamo arrivati. Questo provocò una frattura tra procura e Ros”.
Dopo la morte di Falcone, continua Mori, “Borsellino chiese di parlare con me e De Donno. Lui era convinto che l’inchiesta mafia- appalti fosse la causa dell’uccisione di Falcone, ri- teneva quell’ndagine il sistema migliore per entrare dentro Cosa nostra e chiese che il Ros indagasse. Per questo lo abbiamo incontrato non perché sospettava stessimo facendo la Trattativa. Il 19 luglio fu ucciso anche lui, tre giorni dopo il procuratore Giammanco firmò la richiesta di archiviazione di mafia-appalti”.
C’è anche De Donno, condannato a 8 anni, ma parla molto meno: “Non dobbiamo vergognarci di niente, altri sì”.
Parterre
In sala insieme coi “pannelliani ortodossi” in sala anche i soliti Gasparri e Cicchitto