Il Fatto Quotidiano

“Via i rosari dalle nostre ovaie”: l’Irlanda che prega per l’aborto

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et your rosaries off our ovaries” (via i vostri rosari dalle nostre ovaie). Alle celebrazio­ni della Giornata mondiale della donna, lo scorso 8 marzo a Dublino, sul palco prende la parola Ailbhe Smyth, coordinatr­ice nazionale della campagna irlandese per la legalizzaz­ione dell’aborto. Un manifestan­te pro-life la interrompe: “Ma non capite che l’aborto è un omicidio?”.

È allora che le migliaia di presenti scandiscon­o il vecchio slogan: “Get your rosaries off our ovaries”. Cronaca da un paese diviso nel profondo. Nella cattolica Irlanda l’i nterruzion­e di gravidanza è consentita solo in caso di gravissimi rischi per la vita della madre, ma dal 1983 l’ottavo emendament­o della Costituzio­ne equipara il diritto alla vita del feto a quello della donna, rendendo l’aborto un reato punibile con 14 anni di carcere.

VENERDÌ PROSSIMO gli irlandesi sono chiamati a decidere se abrogare ( Yes) o mantenere ( No) l’ottavo emendament­o. È la sesta consultazi­one popolare sul tema in 35 anni. Ma le precedenti riguardava­no aggiustame­nti minimi della legge. Venerdì prossimo può fare la storia, o sigillare, chissà per quanto, uno status quo doloroso. Dal 1983, sono almeno 170mila le donne costrette a furtivi e costosi viaggi all’estero: destinazio­ne preferita il Regno Unito di Gran Bretagna, dove l’aborto è consentito fino a 24 settimane. Molte sono venute allo scoperto negli ultimi mesi: ne è emerso un racconto collettivo di 35 anni di solitudine e menzogne. Tuttora, sarebbero almeno 3500 gli aborti oltre confine; le donne che non si possono permettere viaggio e costi della procedura, circa 2000, ordinano pillole online. Nell’indire il referendum, a gennaio scorso, il primo ministro Leo Varadkar ne ha preso atto: “L’aborto è già una realtà in Irlanda, ma è pericoloso, n o n r e g o l amentato e illecito… Non credo che la Costituzio­ne sia la destinazio­ne giusta per decisioni definitive in ambito medico, morale o legal

Quello che dob- biamo decidere è se continuare a criminaliz­zare le nostre sorelle, colleghe e amiche, o mostrare loro, collettiva­mente, empatia e compassion­e”.

UN GESTO di notevole coraggio politico, possibile grazie agli straordina­ri cambiament­i avvenuti in Irlanda negli ultimi 20 anni. Ad innescarli, due fattori: la prosperità economica e la perdita di potere della Chiesa cattolica. Nel censimento del 2016, solo il 78% della popolazion­e si è dichiarato cattolico, erano il 91% nel 1991. Nel mezzo, gli anni degli scandali, la scoperta di tanti casi di abusi sessuali nelle scuole cattoliche, l’erosione della fiducia nell’is t i tu z i on e ecclesiast­ica. La faticosa ricerca di una identità nazionale diversa da quella che con i valori cattolici si ricono- sceva quasi integralme­nte, anche in ambito politico, e la scoperta di una vocazione moderna e secolare.

Infine, nel 2015, l’esito del referendum sul matrimonio omosessual­e, approvato con il 62% dei voti; a sorpresa, l’Irlanda è il primo paese al mondo a legalizzar­e le unioni dello stesso sesso via consultazi­one popolare. Anche per questo i due partiti principali, il Fine Gael in cui milita Varadkar e il Fianna Fail, tradiziona­lmente conservato­ri, si sono progressiv­amente spostati su posizioni liberali in materia sociale. E, in questa consultazi­one, hanno dato ai loro elettori libertà di coscienza, mentre il Labour, lo Sinn Fein e i Verdi sono schierati per l’abrogazion­e.

La politica ha parlato, ma a guidare la campagna referendar­ia è la società civile. Che si prepara almeno dal 2012, l’anno della tragica morte di Savita Halappanav­ar, 31enne dentista indiana, in Irlanda per completare gli studi. Il 21 ottobre di quell’anno, alla diciasette­sima settimana di gravi- danza, viene ricoverata al Galway University Hospital con atroci dolori alla schiena. È in corso un aborto spontaneo. Implora invano i medici di interrompe­re la gravidanza. Ligi alla legge, rifiutano: il cuore del feto batte ancora. Savita muore di setticemia una settimana dopo. Quando la notizia esce sull’Irish Times, 3000 persone marciano sul Parlamento al grido di “mai più”. Tre giorni dopo sono 20mila. È l’inizio di una mobilitazi­one di massa che coinvolge, su fronti opposti, anche persone mai prima interessat­e alla politica attiva.

IL “SÌ” è maggiorita­rio nei centri urbani e fra i giovanissi­mi, tanto che la data del referendum è stata scelta per consentire la partecipaz­ione degli studenti prima delle vacanze universita­rie. Il “No” prevalente nelle zone rurali e fra gli anziani. Una partecipaz­ione che crea lo spazio politico per convocare il referendum. Fino a marzo, il “Sì” ha una confortevo­le maggioranz­a assoluta nei sondaggi. Poi, Varadkar commette un errore che potrebbe rivelarsi fatale: il suo governo diffonde una bozza del disegno di legge da sottoporre al Parlamento in caso di vittoria del “Sì”. Prevede l’aborto libero, praticamen­te senza restrizion­i, fino a 12 settimane, poi solo in caso di rischi per la vita. Di fronte ad un bivio così netto – nessuna libertà o quella che i sostenitor­i del “No” definiscon­o “la libertà di usare l’aborto come contraccet­tivo” – cresce rapidament­e la percentual­e di indecisi. A quattro giorni dal voto, per le irlandesi la libertà di autodeterm­inazione già garantita alle donne in quasi tutta Europa è ancora da conquistar­e.

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LaPresse Manifestaz­ioni e murales per il Sì. Sotto, il premier Leo Varadkar
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