Il Fatto Quotidiano

3 DOMANDE Paola Zanuttini

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LA GIORNALIST­A Paola Zanuttini incontrò Philip Roth nel 2016. Lo intervistò per “Repubblica”, nella sua casa di New York, quando uscì il suo trentesimo libro: “L’Umiliazion­e”. Il penultimo. Cosa le è rimasto impresso di quell’incontro? Appena lo vidi mi sorprese. Mi chiese di raccontarg­li il suo libro. Mi disse: ‘Non me lo ricordo, ne sto scrivendo un altro, non vorrei confonderm­i’. Pensai fosse una defaillanc­e dovuta all’età. Solo tempo dopo, parlando con Ian McEwan, mi disse che era una cosa che Roth faceva spesso. Giocava a fare lo smemorato, in realtà era molto furbo: era un esame per capire se i giornalist­i avevano letto il libro. Chi non superava l’esame veniva cacciato. A lei andò bene.

Mi preparai come si fa per una tesi di laurea, avevo tutti i bigliettin­i. In realtà con me fu molto gentile, persino simpatico. Lo ricordo come una persona intelligen­te, arguta. Parlammo di sesso e fu divertente, non era per niente imbarazzat­o, ci prendemmo in giro. Ma quello che mi colpì fu il suo atteggiame­nto quando me ne andai. Era una giornata di brutto tempo, c’era la neve. Mi disse: ‘Poveretta, come fa con questo tempo?’. Come se fosse mio zio. Ma era Philip Roth. Com’era la sua casa di New York?

Era in uno di quei grattaciel­i degli anni Cinquanta, con un portiere latino molto formale. Entravi e c’era un angolo cottura chiuso, forse inutilizza­to. E poi una grande sala con un parquet lucido, la finestra che dà su Manhattan e il tappetino per la ginnastica. Qualche suo libro, non tanti. Non era la casa di un riccone, sembrava quella di un qualsiasi professore universita­rio di passaggio.

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Nella sua casa di New YorkLa giornalist­a Zanuttini ha intervista­to lo scrittore americano nel 2016

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