“Basta alle fiction da dopo-cena, poniamoci dubbi”
“Crediamo al Miracolo se risolve i nostri dubbi”
Philip Roth mi ha insegnato che i piccoli desideri delle persone diventano universali se li sai raccontare Non più rassicurante Siamo usciti dalla mentalità che la fiction arriva mentre le famiglie sono a tavola Dobbiamo porre domande
“Una manifestazione così plateale dell’esistenza di Dio dovrebbe muovere grandi pensieri. E invece i miei personaggi la usano per risolvere mancanze personali, incertezze, dubbi sul futuro. È questo che rende la storia interessante”. Niccolò Ammaniti ha un carattere schivo, poco propenso alla mondanità, “ma il cinema mi sta aiutando”. Con un passato da romanziere (“e forse un futuro, a settembre deciderò”), si è messo per la prima volta dietro la macchina da presa e ha girato, con Francesco Munzi e Lucio Pellegrini, Il Miracolo, la serie originale Sky prodotta da Mario Gianani e Lorenzo Mieli per Wildside. È la storia di una Madonnina che piange sangue, apparentemente senza spiegazione scientifica, e questo presunto miracolo turba le vite di tutti coloro che hanno a che fare con lei. Un po’ thriller, un po’ noir, tanto racconto, con l’atmosfera sospesa e rarefatta di un romanzo. Martedì prossimo, su Sky Atlantic Hd, il finale di stagione. Ma visto il successo che sta registrando, è tempo di fare un primo bilancio.
Ammaniti, nessuno tra i protagonisti è soltanto buono o cattivo. La vita sta irrompendo nelle serie?
Il motore che spinge i miei personaggi non è mai stato etico, essi non vengono costruiti perché rappresentano il bene e il male. La Madonna funziona da catalizzatore, li muove tra le loro paure, passioni, sensi di colpa. Sono come denudati di fronte all’incomprensibile. Proprio come ognuno di noi.
Persino il premier (Fabrizio Pietromarchi, un bravissimo Guido Caprino), la cui figura sembrava essere la più integra, viene scalfito da ciò che non riesce a spiegare.
Mi interessava mettere in luce un aspetto: a lui, come accade spesso a tutti, viene rimproverato di voler fare qualcosa per gli altri soltanto per essere riconosciuto come un buono. È un aspetto che la moglie (Sole, cioè Elena Lietti, rivelazione, ndr), ormai disillusa, smaschera.
Ma ognuno di noi ha bisogno di credere in qualcosa...
Per come si è ridotta la vita nelle azioni quotidiane, releghiamo l’alto ai ruoli istituzionali, alle messe della domenica. Invece la chiave della serie, ciò che la rende interessante, è che una manifestazione così plateale dell’esistenza di Dio, come una Madonna che lacrima sangue, non smuove grandi pensieri – nessuno dice ‘portiamola a San Pietro’ –, ma le singole vite.
Il suo premier afferma: “Viviamo in un Paese con tendenze suicide. C’è qualcosa di masochistico che spinge gli italiani a fare sempre le cose peggiori”. Pietromarchi assomiglia a un politico in particolare?
Credo che la tendenza suicida sia generalizzata e si manifesti a ogni elezione. Da qualche decennio – non prima, la Dc era come la Juve – gli italiani tendono a votare all’opposizione. L’idea di interrompere un percorso perché non sei soddisfatto è tipico di questo Paese, ma non produce cose buone. È una reazione istintiva, l’Italia è come una donna troppo sensibile che appena la tocchi reagisce. La sensazione è che adesso siamo particolarmente confusi, non solo con i 5 Stelle, ma anche con quella che fu l’ascesa rapidissima di Renzi.
Parliamo di fiction. Finalmente abbiamo smesso di vedere periferie, sparatorie, mafia e carabinieri buoni?
L’idea nuova è quella di pensare alla serialità come a una narrazione chiusa, forte di per sé. È una serie, ma potrebbe essere un libro. Siamo usci- ti – e questo già con Gomorra
– dalla mentalità che la serie arriva mentre le famiglie sono a tavola e quindi i personaggi devono essere rassicuranti. Il Miracolo non lo è affatto. Anzi, pone domande.
La tv porta più soldi della letteratura?
Non nel mio caso. E poi, indipendentemente dall’aspetto economico, rifletta su una cosa: intorno a una tavola la gente parla dell’ultima serie vista, non dei libri letti. È come se la forza narrativa, le storie, si siano trasferite nelle serie. A me piace stare dove si raccontano le cose.
L’altro giorno è morto Philip Roth. Come romanziere, ha imparato qualcosa da lui?
Non l’ho mai conosciuto, ma è uno di quegli autori che ho amato, che mi hanno avvicinato di più a un certo modo di descrivere i piccoli desideri delle persone, che diventano immensi e universali quando vengono raccontati. L’unico dolore è che avrebbe meritato il Nobel molto più di tanti altri. Però consoliamoci dicen- do che un premio passa, la scrittura resta.
Abbiamo parlato di finale di stagione. Quindi ce ne sarà un’altra?
Non lo so ancora. Aspetto di finire la serie e tiro le somme, magari dopo l’estate.
Però il finale resta aperto...
Il finale lo scrive il pubblico.