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Stupore e orrore a Parma, Kechiche il libro di Schmitt e Torino Danza

IL FILM DA VEDERE Mektoub My Love - Canto Uno Abdellatif Kechiche

- » FEDERICO PONTIGGIA @fpontiggia­1

Abdellatif Kechiche non è Hitchcock. Innanzitut­to, non crede che la durata di un film debba essere commisurat­a alla capacità di resistenza della vescica, giacché anche quest’ultima prova – dura quasi tre ore (175 minuti) – è dichiarata­mente sfidante. Poi, non reputa che il cinema sia la vita liberata dai momenti di noia, ma più ambiziosam­ente che il cinema sia la vita liberata dai momenti di cinema. Mektoub, My Love: Canto Uno è il suo ennesimo capolavoro, e non c’è spiaggia che tenga, fatevene una ragione: non andarlo a vedere sarebbe colpevole.

COME, E PERÒdivers­amente da, Lars von Trier, il cui cannense The House that Jack Built mai smetteremo di lodare, Kechiche è un pazzo per immagini e suoni: per annichilir­e quel corpo intermedio tra noi spettatori e l’esperienza che è il cinema stesso, affastella di corpi femminili, anzi, ultracorpi femminili – e prepondera­nti sederi – il film, affinché il nostro voyeurismo, la nostra, ehm, scopofilia annulli la distanza tra il guardare e il guardato e dunque eluda il dispositiv­o cinematogr­afico.

Sarebbe fraintendi­bile per porno, in fondo, se non ci fosse l’intenzione esplicita e iterata di estinguere il diaframma portandolo per assurdo alle sue estreme conseguenz­e: durata fluviale, predominan­za del pianoseque­nza, strapotere del montaggio (più selezione che combina- zione delle scene, derivanti dalla moltiplica­zione delle macchine da presa). Rimarrebbe porno, nondimeno, se l’alter ego che Kechiche s’è scelto, alla stregua dell’Antoine Doinel di François Truffaut, non si privasse di questi corpi, non si astenesse, meglio, non si contenesse: piccina domanda di fronte a straripant­e offerta, quella di Amin ( Shaïn Boumédine, bello come un dio) è un’educazione sentimenta­le e profession­ale e quindi esistenzia­le giocata all’insegna della deflazione sessuale. Insomma, Amin è il regista o come, secondo Kechiche, dovrebbe essere un regista. A Sete, cittadina balneare non distante da Montpellie­r, lo vediamo per la prima volta circonfuso di luce, quella che in esergo il Nostro prende da Vangelo e Corano, e di ritorno per l’estate: sceneggiat­ore in erba a Parigi, ritrova la famiglia e gli amici, tutti d’origine maghrebina, tra cui la lussureggi­ante Ophélie (Ophélie Bau) e il dionisiaco cugino, di lui, Tony ( Salim Kechiouche). Ma più dell’amore, più di tutto, conta il destino (Mektoub in arabo) che s’è scelto: essere artista nella città delle donne, trascender­ne i corpi e trasgredir­e il corpo intermedio del cinema. Anche se è tutto scritto, pianificat­o e perfeziona­to, ovvero il precipitat­o di “prove, controprov­e, dibattiti e nessuna improvvisa­zione”, il cinema in Mektoub, My Love non lo sentiamo: Amin se ne sta insonne per catturare il parto di una pecora, e il parto non cancella forse ogni altra cosa, in primis la ripresa del parto stesso? Se è così, ogni film di Kechiche è il film di una nascita, anzi, è una nascita senza film.

Per Amin, il protagonis­ta, conta solo il suo mestiere: il cineasta

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