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IL FILM DA VEDERE Mektoub My Love - Canto Uno Abdellatif Kechiche
Abdellatif Kechiche non è Hitchcock. Innanzitutto, non crede che la durata di un film debba essere commisurata alla capacità di resistenza della vescica, giacché anche quest’ultima prova – dura quasi tre ore (175 minuti) – è dichiaratamente sfidante. Poi, non reputa che il cinema sia la vita liberata dai momenti di noia, ma più ambiziosamente che il cinema sia la vita liberata dai momenti di cinema. Mektoub, My Love: Canto Uno è il suo ennesimo capolavoro, e non c’è spiaggia che tenga, fatevene una ragione: non andarlo a vedere sarebbe colpevole.
COME, E PERÒdiversamente da, Lars von Trier, il cui cannense The House that Jack Built mai smetteremo di lodare, Kechiche è un pazzo per immagini e suoni: per annichilire quel corpo intermedio tra noi spettatori e l’esperienza che è il cinema stesso, affastella di corpi femminili, anzi, ultracorpi femminili – e preponderanti sederi – il film, affinché il nostro voyeurismo, la nostra, ehm, scopofilia annulli la distanza tra il guardare e il guardato e dunque eluda il dispositivo cinematografico.
Sarebbe fraintendibile per porno, in fondo, se non ci fosse l’intenzione esplicita e iterata di estinguere il diaframma portandolo per assurdo alle sue estreme conseguenze: durata fluviale, predominanza del pianosequenza, strapotere del montaggio (più selezione che combina- zione delle scene, derivanti dalla moltiplicazione delle macchine da presa). Rimarrebbe porno, nondimeno, se l’alter ego che Kechiche s’è scelto, alla stregua dell’Antoine Doinel di François Truffaut, non si privasse di questi corpi, non si astenesse, meglio, non si contenesse: piccina domanda di fronte a straripante offerta, quella di Amin ( Shaïn Boumédine, bello come un dio) è un’educazione sentimentale e professionale e quindi esistenziale giocata all’insegna della deflazione sessuale. Insomma, Amin è il regista o come, secondo Kechiche, dovrebbe essere un regista. A Sete, cittadina balneare non distante da Montpellier, lo vediamo per la prima volta circonfuso di luce, quella che in esergo il Nostro prende da Vangelo e Corano, e di ritorno per l’estate: sceneggiatore in erba a Parigi, ritrova la famiglia e gli amici, tutti d’origine maghrebina, tra cui la lussureggiante Ophélie (Ophélie Bau) e il dionisiaco cugino, di lui, Tony ( Salim Kechiouche). Ma più dell’amore, più di tutto, conta il destino (Mektoub in arabo) che s’è scelto: essere artista nella città delle donne, trascenderne i corpi e trasgredire il corpo intermedio del cinema. Anche se è tutto scritto, pianificato e perfezionato, ovvero il precipitato di “prove, controprove, dibattiti e nessuna improvvisazione”, il cinema in Mektoub, My Love non lo sentiamo: Amin se ne sta insonne per catturare il parto di una pecora, e il parto non cancella forse ogni altra cosa, in primis la ripresa del parto stesso? Se è così, ogni film di Kechiche è il film di una nascita, anzi, è una nascita senza film.
Per Amin, il protagonista, conta solo il suo mestiere: il cineasta