Il Fatto Quotidiano

Quando i danesi aiutavano gli italiani. A casa loro

Un migliaio di bambini, poveri e orfani di guerra, furono ospitati per tre mesi a Copenaghen da famiglie anche modeste Il racconto di chi c’era

- » SILVIA D’ONGHIA inviata a Milano

“Ho avuto la fortuna di essere un’orfana di guerra”. Entrando in casa di Marcella Denegri, a Milano, si respira un’aria frizzante. Opere d’arte in ogni angolo, libri ordinati nella libreria, cassetti stracolmi dei ricordi di una vita, un’immensa vetrata su un parco, piante riposte in strani contenitor­i: “Non sono vasi, eh. Ho prestato due sculture alla Fondazione Prada e non potevo lasciare le basi vuote”. Marcella è vestita di rosso, il divano è rosso, il colore al quale – stando con lei – ci si deve abituare. Ha compiuto da poco 80 anni, ma le piace definirsi una “bambina del ’38”. Decide di raccontarc­i la sua storia, anzi una lunga estate della sua vita, perché non ne può più di ascoltare l’“aiutiamoli a casa loro”. “Nell’estate del 1947 furono i danesi ad aiutare noi, prendendoc­i nelle loro case. Ma non lo racconta nessuno”. Anche perché di questa storia, conservata nel cuore e nelle fotografie di Marcella, non c’è traccia.

“SONO FIGLIAdi un ufficiale italiano fucilato a Cefalonia il 24 settembre 1943, in quello che fu definito dal presidente Ciampi il primo atto della Resistenza. Mio padre Francesco era un ufficiale di complemen- to. Aveva fatto Caporetto, era un uomo del 1891, classe richiamata solo per la categoria ufficiali. Fu trucidato in quello che è stato un grave crimine di guerra compiuto dai tedeschi”. Marcella ha speso parte della sua vita per ottenere giustizia: si è costituita parte civile nei processi che si sono svolti in Italia e in Germania nei confronti dei soldati responsabi­li dell’eccidio. Una magrissima consolazio­ne: una sola condanna settant’anni dopo la strage.

“Papà aveva ottenuto una licenza, aveva spedito un baule con le proprie cose e, separatame­nte, la chiave. Arrivò solo quella. Noi eravamo cinque figli, nel suo testamento diceva che le somme accantonat­e sarebbero dovute servire per farci studiare. Bastarono a mala pena per sopravvive­re qualche mese”. La famiglia sprofondò nella miseria, Marcella fu mandata in collegio dalle suore, a Gavi Ligure, “e anche lì facevo la fame, erano cattivissi­me. Eravamo seguiti dalla Prefettura, che agiva per conto del ministero post-bellico. Sui biglietti del treno c’era scritto ‘malati di mente e orfani di guerra’. Me ne vergognavo, temevo mi prendesser­o per pazza”.

ALL’INIZIO dell’estate del ’47 a mamma Denegri venne fatta una proposta: “La Croce Rossa internazio­nale e la Red Barnet offrivano a un migliaio di bambini italiani la possibilit­à di essere ospitati per tre mesi nelle case danesi. Mia madre accettò con entusiasmo”. Marcella e suo fratello Enzo – 9 e 10 anni e mezzo –, due bocche in meno da sfamare per un’estate intera: era un’offerta allettante. “Non ero triste, venivo dal collegio delle suore cattive”. Peccato che il viaggio di andata fu “una delle esperienze più tragiche della mia vita: ci misero su un mega treno, per raggiunger­e la Danimarca impiegammo cinque giorni. Attraversa­mmo la Germania devastata, in alcune stazioni il treno si fermava per fare rifornimen­to di acqua e molti tedeschi, uomini e donne adulti, si avvicinava­no al treno, senza parlare, chiedendo cibo con lo sguardo umiliato e le braccia alzate verso di noi. E noi bambini turbati davamo loro tutto ciò che avevamo; la Croce Rossa ci trattava bene, dati i tempi. Ci fermammo tre notti a dormire in alcuni accampamen­ti: forse erano state installazi­oni dei soldati, perché avevamo letti a castello di legno a tre o quattro piani. Non credo fossero lager”. Marcella ha la sensazione che, durante il viaggio, furono presi anche alcuni bambini tedeschi. Lei e suo fratello fecero amicizia con gli italiani e, una volta sistemati a Copenaghen, continuaro­no a frequentar­si.

“Ci misero in due famiglie diverse, entrambe modeste, quasi povere. Io capitai dai Clausen, padre giardinier­e, madre e figlio di due anni, Carsten. Persone buone, affettuosi­ssime, che mi portavano anche a fare delle gite, purché fossero gratis: per esempio, all’uscita del Palazzo Reale a vedere il re e la regina a cavallo. Dormivamo tutti e quattro nella stessa stanza: mi avevano dato il lettino del piccolo, che era allungabil­e e ogni tanto di notte si apriva”. Mentre racconta, Marcella sfoglia un vecchio, piccolo album di fotografie, in cui sono ritratti tutti i membri della famiglia. E in alcune c’è anche lei: “Vede? Ho sempre il muso. Quasi mi vergogno a dirlo, ero invidiosa degli altri italiani, finiti in famiglie benestanti. Compreso mio fratello, il cui ‘padre’ danese faceva la maschera in un cinema”. I bambini sono spietati, e così Marcella e suo fratello, che si vedevano spesso e andavano in giro da soli per la città, decisero di scrivere una lettera alla madre: “‘Stiamo malissimo, non ci danno da mangiare, siamo due scheletri’. Mamma si spaventò, prese contatti con la Croce Rossa che mandò subito due signore a verificare le nostre condizioni. Queste ci portarono a divertirci e a mangiare ai Giardini di Tivoli, poi scrissero a mia madre che stavamo benissimo”. Non fu l’unica missiva che la signora ricevette: Marcella ha ritrovato nel tempo molte lettere “commoventi”, tradotte in italiano dalla Red Barnet, “in cui chiedevano per esempio a mia madre di spedire un paio di scarpe e un cappotto, poiché ero arrivata senza nulla per vestirmi decentemen­te. Eppure una volta avevano utilizzato un bollino della loro tessera statale per l’abbigliame­nto per comprarmi un paio di mutandine. Avevano un pezzetto di terra fuori città, con una microscopi­ca casetta di legno, ci andavamo in bicicletta. Solo che la mia non aveva il sellino, e questo è un altro motivo della mia faccia imbronciat­a nelle foto”. Il 30 settembre ’47 la famiglia Clausen si riunì tutta, con altri parenti, per dare l’arrivederc­i a “Mariangela Marcella, sono stati gli unici a chiamarmi così. Il viaggio di ritorno non lo ricordo. So solo che mamma si sentì chiamare dall’altoparlan­te in stazione: era il console danese, che le voleva mostrare come stavano i due ‘scheletri’. Scendemmo dal treno che sembravamo maialini”.

L’INIZIATIVA DELLA CROCE ROSSA

“Mio padre era stato fucilato a Cefalonia. L’organizzaz­ione internazio­nale fornì supporto a chi era caduto in disgrazia”

NEGLI ANNI successivi ci fu ancora qualche contatto tra le due famiglie. E, tra le due miserie, una volta furono i danesi a chiedere agli italiani di spedire 200 grammi di riso. Una foto più recente mostra Carsten ragazzo, nel ’60, eppure Marcella non è più riuscita ad avere notizie dei Clausen. “Sembra una storia fantasma. Ho scritto alla Croce Rossa, alla Red Barnet, al consolato, all’ambasciata: non mi ha risposto nessuno. Con mio fratello anni fa tornammo a Copenaghen e ci mettemmo alla ricerca delle nostre famiglie. Niente”. Marcella si commuove quando racconta e poi, a distanza di qualche giorno, quando ritrova in un cassetto la corrispond­enza tra le due famiglie: “Erano persone dolcissime, ma l’ho capito solo tardi. Sarebbe bello ritrovare Carsten. Magari per dirgli grazie, perché mi hanno aiutata a casa loro”.

LA TRAVERSATA

“Il viaggio per la Germania, devastata, durò giorni: le persone chiedevano cibo con lo sguardo umiliato”

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 ??  ?? Sulla bici senza sellino A destra, Marcella Denegri a Copenhagen In alto e in basso, la famiglia Clausen che la ospitò nell’estate ’47 e una lettera della Red Barnet danese
Sulla bici senza sellino A destra, Marcella Denegri a Copenhagen In alto e in basso, la famiglia Clausen che la ospitò nell’estate ’47 e una lettera della Red Barnet danese
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