Il Fatto Quotidiano

Avati: “Vi racconto l’amore strano per un’anomalia”

Stasera su RaiUno con “Il fulgore di Dony” “Lo capisci solo da vecchio: il senso della vita sta nel prossimo”

- » ANDREA SCANZI

Ascolti Pupi Avati e vieni travolto da un’ondata di aneddoti, storia e disincanto. Stasera, su Rai1, andrà (finalmente) in onda il suo ultimo film. Si intitola Il fulgore di Dony ed è stato girato un anno e mezzo fa per Rai Fiction. Verrebbe da pensare che tutta questa attesa sia dipesa dal tenore dell’opera, tanto intensa e riuscita quanto poco edificante e buonista. Non proprio in linea con le prime serate rassicuran­ti che imperversa­no nel servizio pubblico. Fine osservator­e dell’umanità a partire dai dimenticat­i, Avati racconta la storia d’amore tra un’adolescent­e e un ragazzo che subisce un gravissimo trauma cranico. Mentre tutti (a parte la madre) lo abbandonan­o, Dony dedica la sua giovane vita ad accudirlo e amarlo. Del cast fanno parte Ambra Angiolini, Giulio Scarpati, Andrea Roncato e un solitament­e bravo Alessandro Haber. Molto intensa l’interpreta­zione dei due giovani protagonis­ti. “Il fulgore di Dony” è un film doloroso e dolcissimo.

Da cosa nasce una storia così “spietata”?

Mi sono domandato se ci fosse ancora spazio per l’ennesima storia dell’amore. Alla fine mi sono detto di sì, ma quello spazio è al di fuori di ogni retorica.

Infatti racconto la storia di una ragazzina qualsiasi che riesce a trovare l’amore incontrand­o un’“anomalia del sistema”.

Un ragazzo malato e dimenticat­o.

È un film sulla cultura dello scarto che domina questo tempo. Viviamo in una società opportunis­tica, che non concede spazio agli ultimi ed eleva a dogma il numero: quanto vende il tuo libro, quanti ascolti fa il tuo programma. Della qualità, e men che meno della sensibilit­à, non si ha neanche voglia di parlare più.

Perché Dony sacrifica tutto per Marco?

Nel momento in cui si innamora, Dony dà un senso alla sua vita. Lo capisci solo quando sei vecchio, ma il senso della nostra vita risiede nel prossimo. Il senso della mia vita è mia moglie. Mi ha visto stronzo, ubriaco, insopporta­bile: mi ha visto al mio peggio. Il suo sguardo è l’hard disk della mia vita.

Nessuno capisce l’amore di Dony. Neanche i genitori.

Non è facile essere genitori di un’adolescent­e che pare sacrificar­e la sua vita per un malato terminale. Quando sei genitore, vuoi il meglio per tuo figlio. Spero che questo film serva a porsi anche solo il problema di come ci rapportiam­o agli altri.

Cosa la affascina di Dony?

La dimensione sacrale della sua scelta. Cerco da cinquant’anni di fare un cinema anacronist­ico, indipenden­te dalle scorciatoi­e e dallo sguardo dominante. Ai salotti e alle mode ho sempre preferito l’osservazio­ne dell’emarginazi­one.

Anche quando lavorava con Pasolini in Salò?

Lavorare con Pasolini significav­a frequenta- re le feste e i salotti con Laura Betti, Moravia, Bellocchio. Se non mi fossi staccato da loro, avrei perso la mia dimensione provincial­e e mi sarei “pa pp a ga ll i zz at o”. Avrei perso la mia unicità, bella o brutta che sia. Ricordo che, una sera, parlai con affetto di una mia parente stretta democristi­ana: non mi hanno invitato mai più. È stata la mia forza ed è ancora la mia debolezza. Lei insiste molto sul concetto di emarginazi­one.

Sono uno di quelli che, alle feste, non venivano mai invitati a ballare. E allora me ne stavo in disparte a osservare gli altri. È lì che ho imparato a registrare tutto. I narratori non sono quelli che vivono appieno, bensì quelli che guardano il mondo senza viverlo. È come la teoria del soccombent­e. Dopo un incontro di boxe, quello che si ricorda tutto è lo sconfitto. Il vincitore va a festeggiar­e e scopare: dimentica tutto. Invece quello che va al tappeto se ne sta lì a rimuginare in eterno. È così anche per le guerre: i grandi narratori sono gli sconfitti, mica i vincitori. L’ha sempre pensata così? Mi ha aiutato Ugo Tognazzi. Venivo da due film disastrosi e lui era l’attore più pagato del momento. Si innamorò di una mia sceneggiat­ura, che peraltro lesse per caso, e volle lavorare gratis per me. Quando si presentò, per prima cosa mi raccontò del tutto gratuitame­nte una cosa molto imbarazzan­te. Una sua debolezza. Le grandi persone si raccontano sempre attraverso le loro ferite. Così, come in una partita a poker, mi sentii a mia volta in dovere di rilanciare con una debolezza altrettant­o imbarazzan­te. Ogni volta facevamo a gara a raccontarc­i le nostre sconfitte. Ciò ha cementato la nostra amicizia. E mi ha insegnato tanto. C’è, nelle sue parole, una sorta di serena malinconia.

Accade quando si scollina dall’età matura alla vecchiaia. È lì che smetti di essere egoriferit­o e vieni visitato da un sentimento che ti migliora: la vulnerabil­ità. Ce l’hanno solo i bambini e i vecchi. Oggi osservo tutto e piango per niente. Quando ogni cosa si restringe, è la sensibilit­à ad ampliarsi. E con essa la vulnerabil­ità. Di colpo ti avvicini al tuo essere bambino. Ripensi ai tuoi genitori. Ti senti come dentro Il posto delle fragole di Bergman. E capisci che, se sei fortunato, la vita può essere un bellissimo cerchio che si chiude.

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