La politica piegata ai suoi voleri
▶CINQUE ANNI FA,
Sergio Marchionne arrabbiandosi con l’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi che forse per sbaglio lo aveva criticato, lo fulminò come rappresentante “di una città piccola e povera”. Renzi replicò: “Prima di parlare di Firenze si sciacqui la bocca”. Se ci avesse pensato bene, anziché concentrarsi come suo solito sulla rapidità della battutona, avrebbe capito che quello era il vero manifesto politico del manager italo-canadese. Marchionne, prima che la famiglia Agnelli gli affidasse la Fiat in circostanze convulse al funerale di Umberto, non aveva mai lavorato in Italia. Se la classe dirigente italiana fosse stata meno intontita dalla sua profonda crisi, avrebbe capito che non era venuto a portare modernità ma a prendersi ciò che serviva alla sua multinazionale americana dell’auto. Gli stabilimenti italiani della Fca non sono oggi molto diversi dalle maquiladoras messicane in cui operai sottopagati assemblano i pezzi prodotti altrove di oggetti progettati altrove e venduti altrove per trasferire ricchezza altrove. L’Italia è un Paese piccolo e povero. È governato da politici che non sanno le lingue e che non viaggiano. I suoi imprenditori sono troppo spesso eredi senza merito di famiglie in declino. I suoi sindacalisti sanno tutto delle loro beghe interne e molto meno del lavoro e delle imprese. Gli uni e gli altri, politici, imprenditori e sindacalisti – con rare e meritevoli eccezioni – si sono illusi che il modello Marchionne, spietato, diretto e senza concessioni alle liturgie delle relazioni sociali, fosse la scorciatoia verso il ritorno alla crescita. L’unica crescita che hanno saputo realizzare è stata invece quella immeritata dei loro stipendi. Marchionne è stato il loro ritratto di Dorian Gray, ma alla rovescia. Si sono specchiati in quell’immagine, promessa di giovinezza eterna, senza accorgersi che stavano diventando decrepiti e che il colonizzatore nato a Chieti rideva di loro. Fino all’estremo sberleffo dell’uscita da Confindustria.