SORPRESA: IL SALVIMAIO NON È “POPULISTA”
Ènato il governo populista: il primo dell’Italia repubblicana, il primo in una democrazia europea. Questo è il Leitmotiv che si sente circolare un po’ ovunque, l’oggetto di tutti i commenti mediatici, la pietra dello scandalo da scagliare addosso agli interlocutori nei talk show. Con il consueto contorno di diatribe intorno all’aggettivo, fra chi dice che il populismo non esiste, chi ne cita le origini russe, statunitensi o sudamericane per spiegare che qui è tutta un’altra storia e chi lo derubrica a un mero stile, che si può usare quando fa comodo per poi sbarazzarsene se dà fastidio. E non manca, a mo’ di corollario, l’inevitabile domanda: ma un movimento populista si può istituzionalizzare? E se compie questo passo, in che cosa si trasforma?
MESSA SUL PIANO delle schermaglie politiche quotidiane, la questione si può anche affrontare così. Ma se si vogliono analizzare le cose con un minimo di scientificità – cioè per capirle sul serio –, un approccio di questo genere porta decisamente fuori strada. Per pochi ma solidi motivi.
In primo luogo, chi se ne è occupato studiandolo sul serio sa che il populismo esiste, eccome. Lo si può considerare anche come uno stile comunicativo, ma di certo è, nella sua essenza, qualcosa di ben può complesso: un’ideologia “debole” secondo alcuni, una mentalità secondo altri, fra cui chi scrive queste righe. Per essere più precisi, una mentalità che non combacia in esclusiva con nessuna area politica: lo si può teorizzare da sinistra e lo si può praticare da destra, magari senza neanche teorizzarlo.
Richiamati in estrema sintesi, i fondamenti di questa mentalità rimandano alla nostalgia per un popolo coeso e puro, che si pensa sia esistito in passato e si vorrebbe far rivivere oggi, all’affermazione del suo diritto a esercitare direttamente il potere (magari scegliendosi come ventriloquo un capo-popolo più o meno carismatico), al fastidio per le mediazioni, le istituzioni e la rappresentanza, all’individuazione di una serie di nemici da combattere senza tregua perché usurpano le prerogative popolari e ne insidiano la sovranità. La galleria di questi nemici del popolo può variare da caso a caso, ma ha alcune figure fisse: il burocrate, il politico di professione, il finanziere, l’intellettuale, lo straniero predatore, le istituzioni sovranazionali. Insomma, le oligarchie. Tutti parassiti da mettere fuori gioco.
DA QUESTO PUNTOdi vista si può certamente sostenere che nei due contraenti il patto di governo un certo numero di caratteristiche ci sono. La Lega è da sempre intrisa di populismo, di cui ha fatto una chiave del suo successo. Il M5S avrebbe potuto seguire la stessa via se avesse ricalcato per filo e per segno la rotta tracciata da Beppe Grillo, prototipo perfetto del leader-agitatore populista, ma la sua eterogeneità lo ha in parte sviato da quell’itinerario. Salvo poi trovarsi bene con Salvini e i suoi, dopo averli conosciuti un po’ meglio. Del resto, gli studi già avevano attestato l’esistenza di una consistente fetta di elettorato disposta a dar credito a entrambi, votando l’una o l’altro a seconda del momento.
Tuttavia, la somma di questi elementi, una volta condensata nel “contratto” sottoscritto dagli alleati e nella lista dei ministri presentati da Conte, non pare affatto aver prodotto un governo populista. Aver collocato ai vertici dell’esecutivo un tecnico – per giunta lontano dallo stereotipo dell’uomo della strada o della “madre di famiglia” che Grillo prometteva nei suoi comizi di voler porre al timone del Paese perché sapeva come si conduce un focolare domestico – ed essersi affidati in ruoli cruciali a navigati commis d’Etat graditi all’Unione europea significa aver ridimensionato, e di molto, la vantata ostilità all’establishment, e molti altri segni fanno supporre che di “limare le unghie alla finanza”, di affiancare alle Camere strumenti di autodecisione popolare come i referendum propositivi, di riconquistare l’indipendenza nazionale sbarazzandosi della servitù ad alleanze militari eterodirette (come si era proclamato di voler fare) non se ne parlerà affatto. Certo, si punterà su qualche provvedimento simbolico per non deludere troppo i seguaci, ma – se la barca navigherà – di eclatante, nei futuri atti dell’esecutivo, si vedrà assai poco. Non sarebbe, d’altronde, una storia nuova. Ovunque sono riusciti a farsi accettare come alleati di governo ( Austria, Olanda, Norvegia, Finlandia, Danimarca, alcuni Paesi dell’Est e già in passato in Italia), i populisti hanno deposto i toni incendiari e assunto vesti riformiste. Si dirà che in questo caso non hanno l’ingombro di un senior partner che li obblighi a rinunciare ai loro programmi. È vero: ma, come il caso-Mattarella dimostra, sanno di essere sotto il tiro incrociato di presidenti, conferenze episcopali, tv, radio, giornali, operatori finanziari. E anche i populisti sanno fare calcoli e spesso inducono a cedere alle lusinghe del potere. Anche a costo di cambiare (parzialmente) pelle.