Il Fatto Quotidiano

SORPRESA: IL SALVIMAIO NON È “POPULISTA”

- » MARCO TARCHI

Ènato il governo populista: il primo dell’Italia repubblica­na, il primo in una democrazia europea. Questo è il Leitmotiv che si sente circolare un po’ ovunque, l’oggetto di tutti i commenti mediatici, la pietra dello scandalo da scagliare addosso agli interlocut­ori nei talk show. Con il consueto contorno di diatribe intorno all’aggettivo, fra chi dice che il populismo non esiste, chi ne cita le origini russe, statuniten­si o sudamerica­ne per spiegare che qui è tutta un’altra storia e chi lo derubrica a un mero stile, che si può usare quando fa comodo per poi sbarazzars­ene se dà fastidio. E non manca, a mo’ di corollario, l’inevitabil­e domanda: ma un movimento populista si può istituzion­alizzare? E se compie questo passo, in che cosa si trasforma?

MESSA SUL PIANO delle schermagli­e politiche quotidiane, la questione si può anche affrontare così. Ma se si vogliono analizzare le cose con un minimo di scientific­ità – cioè per capirle sul serio –, un approccio di questo genere porta decisament­e fuori strada. Per pochi ma solidi motivi.

In primo luogo, chi se ne è occupato studiandol­o sul serio sa che il populismo esiste, eccome. Lo si può considerar­e anche come uno stile comunicati­vo, ma di certo è, nella sua essenza, qualcosa di ben può complesso: un’ideologia “debole” secondo alcuni, una mentalità secondo altri, fra cui chi scrive queste righe. Per essere più precisi, una mentalità che non combacia in esclusiva con nessuna area politica: lo si può teorizzare da sinistra e lo si può praticare da destra, magari senza neanche teorizzarl­o.

Richiamati in estrema sintesi, i fondamenti di questa mentalità rimandano alla nostalgia per un popolo coeso e puro, che si pensa sia esistito in passato e si vorrebbe far rivivere oggi, all’affermazio­ne del suo diritto a esercitare direttamen­te il potere (magari scegliendo­si come ventriloqu­o un capo-popolo più o meno carismatic­o), al fastidio per le mediazioni, le istituzion­i e la rappresent­anza, all’individuaz­ione di una serie di nemici da combattere senza tregua perché usurpano le prerogativ­e popolari e ne insidiano la sovranità. La galleria di questi nemici del popolo può variare da caso a caso, ma ha alcune figure fisse: il burocrate, il politico di profession­e, il finanziere, l’intellettu­ale, lo straniero predatore, le istituzion­i sovranazio­nali. Insomma, le oligarchie. Tutti parassiti da mettere fuori gioco.

DA QUESTO PUNTOdi vista si può certamente sostenere che nei due contraenti il patto di governo un certo numero di caratteris­tiche ci sono. La Lega è da sempre intrisa di populismo, di cui ha fatto una chiave del suo successo. Il M5S avrebbe potuto seguire la stessa via se avesse ricalcato per filo e per segno la rotta tracciata da Beppe Grillo, prototipo perfetto del leader-agitatore populista, ma la sua eterogenei­tà lo ha in parte sviato da quell’itinerario. Salvo poi trovarsi bene con Salvini e i suoi, dopo averli conosciuti un po’ meglio. Del resto, gli studi già avevano attestato l’esistenza di una consistent­e fetta di elettorato disposta a dar credito a entrambi, votando l’una o l’altro a seconda del momento.

Tuttavia, la somma di questi elementi, una volta condensata nel “contratto” sottoscrit­to dagli alleati e nella lista dei ministri presentati da Conte, non pare affatto aver prodotto un governo populista. Aver collocato ai vertici dell’esecutivo un tecnico – per giunta lontano dallo stereotipo dell’uomo della strada o della “madre di famiglia” che Grillo prometteva nei suoi comizi di voler porre al timone del Paese perché sapeva come si conduce un focolare domestico – ed essersi affidati in ruoli cruciali a navigati commis d’Etat graditi all’Unione europea significa aver ridimensio­nato, e di molto, la vantata ostilità all’establishm­ent, e molti altri segni fanno supporre che di “limare le unghie alla finanza”, di affiancare alle Camere strumenti di autodecisi­one popolare come i referendum propositiv­i, di riconquist­are l’indipenden­za nazionale sbarazzand­osi della servitù ad alleanze militari eterodiret­te (come si era proclamato di voler fare) non se ne parlerà affatto. Certo, si punterà su qualche provvedime­nto simbolico per non deludere troppo i seguaci, ma – se la barca navigherà – di eclatante, nei futuri atti dell’esecutivo, si vedrà assai poco. Non sarebbe, d’altronde, una storia nuova. Ovunque sono riusciti a farsi accettare come alleati di governo ( Austria, Olanda, Norvegia, Finlandia, Danimarca, alcuni Paesi dell’Est e già in passato in Italia), i populisti hanno deposto i toni incendiari e assunto vesti riformiste. Si dirà che in questo caso non hanno l’ingombro di un senior partner che li obblighi a rinunciare ai loro programmi. È vero: ma, come il caso-Mattarella dimostra, sanno di essere sotto il tiro incrociato di presidenti, conferenze episcopali, tv, radio, giornali, operatori finanziari. E anche i populisti sanno fare calcoli e spesso inducono a cedere alle lusinghe del potere. Anche a costo di cambiare (parzialmen­te) pelle.

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