SERVE LA STORIA PER COLMARE IL GAP NORD-SUD
È UNA GUERRA contro la povertà e la miseria, quasi che essere poveri e senza lavoro sia una colpa grave da espiare o un reato da sanzionare. Guai a essere poveri. Non c'è scampo per nessuno. ENZO CICONTE, “LA GRANDE MATTANZA. STORIA DELLA GUERRA AL BRIGANTAGGIO”, LATERZA
CONSIGLIO NON RICHIESTO al ministro per il Sud (e donna del Sud) Barbara Lezzi: trovi il tempo di leggere il libro di Enzo Ciconte, autorevole storico delle mafie e non solo. Lo legga perché ha il ritmo di un romanzo (anche se dell’orrore). Lo legga perché il racconto su certe radici del passato può aiutarci a capire certi frutti del presente. Poi c’è un terzo motivo, ma lo dirò alla fine. La mattanza scatenata dalle truppe piemontesi nel Mezzogiorno dopo l’Unità d’Italia ha qualcosa di mostruoso. Vicende che hanno riempito intere biblioteche e alle quali, nei testi scolastici (almeno quelli su cui ho studiato) veniva in qualche modo data una giustificazione. Con la scusa della lotta alla criminalità l’esercito “italiano” scatenò il terrore nei confronti di tutti coloro che non si piegavano al nuovo stato di cose: insorgenti, nostalgici borbonici oltreché contadini in armi, definiti tutti briganti. “La repressione è tanto più dura e spietata – scrive Ciconte – perché c’è la convinzione che il Mezzogiorno d’Italia sia un territorio abitato da sanguinari e selvaggi nei confronti dei quali la violenza è più che giustificata”. E ancora: “Fucilazioni sommarie, torture, impiccagioni, stragi, oltraggio ai cadaveri esposti come trofei e fotografati per mostrare la potenza dell’esercito e la miseria umana”. Il tutto spesso al di fuori di ogni legalità. Si dirà: è storia di due secoli fa che non ha rapporto alcuno con gli odierni problemi del Sud. Ne siamo così convinti? Ci dice qualcosa che represso il brigantaggio, negli anni successivi “fanno la loro apparizione gruppi di uomini che si organizzano e decidono di agire contro le leggi usando la violenza, si fanno proprie leggi, formano associazioni, strutture stabili, inventano linguaggi, modi di pensare, elaborano una visione della vita e dei rapporti con gli altri, persone o istituzioni”? Non è per caso quel fenomeno “del tutto nuovo che nel tempo prenderà il nome di mafia, camorra, ’ndrangheta”? Cosa ci suggerisce quella lunga scia di sangue che arriva fino ai giorni nostri, frutto dell’accanimento contro “i soggetti più deboli, i disperati, la povera gente, gli schiacciati dalla vita, gli emarginati, i reietti”? Ci dice, gentile ministro, che l’eterna questione meridionale, oltre a nutrire una copiosa convegnistica, ha prodotto cospicui finanziamenti a pioggia che hanno dato lavoro soprattutto alle clientele della politica più famelica. Ma anche che “il Sud” non può essere liquidato in otto righe del famoso Contratto di governo. Con la motivazione che “contrariamente al passato si è deciso di non individuare specifiche misure con il marchio ‘Mezzogiorno’, nella consapevolezza che tutte le scelte politiche previste – sostegno al reddito, pensioni, investimenti, ambiente, tutela dei livelli occupazionali –, sono orientate dalla convinzione verso uno sviluppo economico omogeneo per il Paese, pur tenendo conto delle differenti esigenze territoriali con l’obiettivo di colmare il gap tra Nord e Sud”. Ora, a parte un uso dell’italiano piuttosto discutibile, c’è da chiedersi allora se un ministro per il Sud fosse proprio necessario. O se non bastassero le competenze, mettiamo dello Sviluppo economico, a“colmare il gap”. Non sarà vero invece il contrario? Che un ministro del Sud è indispensabile e con tutti i poteri necessari anche per misure di pronto intervento? Perché quella metà del Paese di cui parliamo vive (e sopravvive) in una condizione tale di sofferenza, e spesso di disperazione (al Sud un giovane su due non studia e non lavora) da far temere perfino fenomeni di esplosione sociale. Gli ultimi di oggi come gli ultimi di allora. Nel Contratto non c’è scritto, ma nei libri di storia sì.