Oltre il limite del lavoro come sola fonte di ricchezza
Immaginate un mondo in cui, grazie all’automazione, si lavora sempre meno e si produce sempre di più. È al contempo il mondo in cui viviamo e la promessa di un futuro fantascientifico. Ma se si tratti di un futuro utopico o distopico non è chiaro. Da un lato, una distopia in cui la ricchezza crescente si concentra nelle mani di pochi e la contrazione del lavoro umano riduce sempre più persone in povertà. Una corsa a rendersi competitivi, a inseguire un cuore dell’economia sempre sfuggente, rimpiazzati continuamente nelle nostre nuove competenze dai robot, sempre più inutili. Dall’altro un futuro utopico in cui la ricchezza è sempre meno legata al lavoro umano “produttivo” (delegato alle macchine), ma distribuita equamente. Un futuro di innovazione, tempo libero, famiglia, scienza, musica, arte e poesia. Il progresso al servizio di un’organizzazione sociale migliore.
POCHE PROPOSTE politiche mantengono oggi un anelito utopico. L’idea di un reddito di cittadinanza ha invece un piede, sì, nel presente, ma l’altro deliberatamente in questi futuri. Ora il tema è infine emerso anche in Italia. M5S lo ha fermamente nel suo programma. Stefano Feltri coglie l’occasione e offre, nel suo libro Reddito di cittadinanza (edito da Paper First), una riflessione sobria e documentata su quanto è stato proposto e tentato. Intanto Chris Hughes, il cofondatore di Facebook, pubblica Fair Shot, in cui lancia la proposta di un reddito di cittadinanza legato al lavoro: 500 dollari al mese per chi lavora, cerca lavoro o si prende cura di bambini, anziani, invalidi, e guadagna meno di 50.000 dollari all’anno. La maggioranza delle proposte, comprese quelle del M5S e di Hughes, pongono vincoli legati al lavoro, alla sua ricerca. Il lavoro è condizione e fine. Il che è paradossale se pensiamo che l’idea stessa di un reddito di cittadinanza è radicata in scenari in cui di lavoro ce n’è, e ce ne sarà, sempre meno. Le cautele della proposta del M5S (come di tante altre), con l’obbligo di formazione continua, centri per l’impiego, controlli, un massimo di tre lavori rifiutati, sono dovute al timore di scoraggiare la ricerca del lavoro. L’idea di fondo è che obiettivo auspicabile e fattibile sia un lavoro ben pagato per tutti. La misura vuole creare lavoro; non vuole confrontare un futuro (utopico o distopico) in cui l’automazione il lavoro se l’è mangiato. L’approccio di Hughes è differente: sostiene (ricerca alla mano) che non è solo la povertà a creare marginalizzazione, criminalità, malattie. È invece la mancanza di uno scopo, di un ruolo, dell’autostima funzione del rispetto altrui per il proprio contributo alla collettività. Il lavoro non è solo reddito: è dignità, senso di se stessi e del proprio posto nel mondo. Politiche redistributive come il reddito di cittadinanza vanno vincolate al lavoro, perché non vogliono redistribuire solo reddito, ma anche rispetto e dignità. Hughes ha ragione: sir Michael Marmot, epidemiologo di Ucl che ha studiato gli effetti del gradiente sociale (come gradiente di status prima che di reddito) sulla salute, ha ben dimostrato che sono le diseguaglianze di posizione e rispetto che fanno davvero la differenza. Se però adottiamo questa prospettiva i problemi si complicano.
Primo. Se il punto non è sanzionare pigri e disonesti ma guidare il disoccupato al lavoro come fonte di scopo e dignità, allora le conseguenze dei mezzi stessi di controllo e “formazione” sull’autostima diventano fondamentali. Basta guardarsi Io, Daniel Blake di Ken Loach per rendersi conto dell’umiliazione strutturale in sistemi di controllo del welfare iperburocratizzati e punitivi: dalle code in centri per l’impiego sottofinanziati, all’errore arbitrario del funzionario, alla pervasiva presunzione di colpevolezza. Il pericolo è creare un sistema che redistribuisce reddito ai meno fortunati mentre ne umilia ulteriormente la dignità. Secondo. Che rispetto e status siano legati a doppio filo al lavoro non è fatto naturale, ma storico contingente.
IN CITTÀ-STATOgreche, come Atene e Iaso, forme di supporto al reddito idealmente universali erano legate non alla ricerca di lavoro ma alla partecipazione politica in assemblee, consigli, tribunali, magistrature (selezionate per lo più per sorteggio). Questi ruoli numerosissimi erano concettualizzati come timai, fonte di stima e dignità, e remunerati con un reddito minimo. Il sistema, a suo modo (e con i suoi limiti: l’esclusione di donne, schiavi e stranieri) garantiva ai cittadini un modicumdi reddito, onore e autorità politica. Cito questi esempi non per proporli come modelli di redistribuzione di rispetto e reddito combinati a forme sperimentali di democrazia diretta (tanto care al M5S). Quanto per mostrare che il lavoro non è e non deve essere l’unica fonte di scopo, rispetto e dignità. Al contrario, un’economia che richiede sempre meno lavoro umano sta già creando impiego che è in realtà contenitore vuoto: mansioni sottopagate e umilianti, ruoli iperburocratici inutili, improduttivi e percepiti come tali. Rispetto e dignità andranno sempre più cercati altrove. L’idea di un reddito di cittadinanza ci può aiutare a tratteggiare un futuro che non è solo continuazione e aggiustamento del presente. Ci invita a pensare fuori dagli schemi, a immaginare un modello di distribuzione più equo non solo di ricchezza e reddito, ma anche di rispetto, stima e controllo politico sulla vita della collettività.
Una corsa a rendersi competitivi, a inseguire un’economia sfuggente, rimpiazzati nelle nostre nuove competenze dai robot