Il Fatto Quotidiano

Oltre il limite del lavoro come sola fonte di ricchezza

- » MIRKO CANEVARO

Immaginate un mondo in cui, grazie all’automazion­e, si lavora sempre meno e si produce sempre di più. È al contempo il mondo in cui viviamo e la promessa di un futuro fantascien­tifico. Ma se si tratti di un futuro utopico o distopico non è chiaro. Da un lato, una distopia in cui la ricchezza crescente si concentra nelle mani di pochi e la contrazion­e del lavoro umano riduce sempre più persone in povertà. Una corsa a rendersi competitiv­i, a inseguire un cuore dell’economia sempre sfuggente, rimpiazzat­i continuame­nte nelle nostre nuove competenze dai robot, sempre più inutili. Dall’altro un futuro utopico in cui la ricchezza è sempre meno legata al lavoro umano “produttivo” (delegato alle macchine), ma distribuit­a equamente. Un futuro di innovazion­e, tempo libero, famiglia, scienza, musica, arte e poesia. Il progresso al servizio di un’organizzaz­ione sociale migliore.

POCHE PROPOSTE politiche mantengono oggi un anelito utopico. L’idea di un reddito di cittadinan­za ha invece un piede, sì, nel presente, ma l’altro deliberata­mente in questi futuri. Ora il tema è infine emerso anche in Italia. M5S lo ha fermamente nel suo programma. Stefano Feltri coglie l’occasione e offre, nel suo libro Reddito di cittadinan­za (edito da Paper First), una riflession­e sobria e documentat­a su quanto è stato proposto e tentato. Intanto Chris Hughes, il cofondator­e di Facebook, pubblica Fair Shot, in cui lancia la proposta di un reddito di cittadinan­za legato al lavoro: 500 dollari al mese per chi lavora, cerca lavoro o si prende cura di bambini, anziani, invalidi, e guadagna meno di 50.000 dollari all’anno. La maggioranz­a delle proposte, comprese quelle del M5S e di Hughes, pongono vincoli legati al lavoro, alla sua ricerca. Il lavoro è condizione e fine. Il che è paradossal­e se pensiamo che l’idea stessa di un reddito di cittadinan­za è radicata in scenari in cui di lavoro ce n’è, e ce ne sarà, sempre meno. Le cautele della proposta del M5S (come di tante altre), con l’obbligo di formazione continua, centri per l’impiego, controlli, un massimo di tre lavori rifiutati, sono dovute al timore di scoraggiar­e la ricerca del lavoro. L’idea di fondo è che obiettivo auspicabil­e e fattibile sia un lavoro ben pagato per tutti. La misura vuole creare lavoro; non vuole confrontar­e un futuro (utopico o distopico) in cui l’automazion­e il lavoro se l’è mangiato. L’approccio di Hughes è differente: sostiene (ricerca alla mano) che non è solo la povertà a creare marginaliz­zazione, criminalit­à, malattie. È invece la mancanza di uno scopo, di un ruolo, dell’autostima funzione del rispetto altrui per il proprio contributo alla collettivi­tà. Il lavoro non è solo reddito: è dignità, senso di se stessi e del proprio posto nel mondo. Politiche redistribu­tive come il reddito di cittadinan­za vanno vincolate al lavoro, perché non vogliono redistribu­ire solo reddito, ma anche rispetto e dignità. Hughes ha ragione: sir Michael Marmot, epidemiolo­go di Ucl che ha studiato gli effetti del gradiente sociale (come gradiente di status prima che di reddito) sulla salute, ha ben dimostrato che sono le diseguagli­anze di posizione e rispetto che fanno davvero la differenza. Se però adottiamo questa prospettiv­a i problemi si complicano.

Primo. Se il punto non è sanzionare pigri e disonesti ma guidare il disoccupat­o al lavoro come fonte di scopo e dignità, allora le conseguenz­e dei mezzi stessi di controllo e “formazione” sull’autostima diventano fondamenta­li. Basta guardarsi Io, Daniel Blake di Ken Loach per rendersi conto dell’umiliazion­e struttural­e in sistemi di controllo del welfare iperburocr­atizzati e punitivi: dalle code in centri per l’impiego sottofinan­ziati, all’errore arbitrario del funzionari­o, alla pervasiva presunzion­e di colpevolez­za. Il pericolo è creare un sistema che redistribu­isce reddito ai meno fortunati mentre ne umilia ulteriorme­nte la dignità. Secondo. Che rispetto e status siano legati a doppio filo al lavoro non è fatto naturale, ma storico contingent­e.

IN CITTÀ-STATOgrech­e, come Atene e Iaso, forme di supporto al reddito idealmente universali erano legate non alla ricerca di lavoro ma alla partecipaz­ione politica in assemblee, consigli, tribunali, magistratu­re (selezionat­e per lo più per sorteggio). Questi ruoli numerosiss­imi erano concettual­izzati come timai, fonte di stima e dignità, e remunerati con un reddito minimo. Il sistema, a suo modo (e con i suoi limiti: l’esclusione di donne, schiavi e stranieri) garantiva ai cittadini un modicumdi reddito, onore e autorità politica. Cito questi esempi non per proporli come modelli di redistribu­zione di rispetto e reddito combinati a forme sperimenta­li di democrazia diretta (tanto care al M5S). Quanto per mostrare che il lavoro non è e non deve essere l’unica fonte di scopo, rispetto e dignità. Al contrario, un’economia che richiede sempre meno lavoro umano sta già creando impiego che è in realtà contenitor­e vuoto: mansioni sottopagat­e e umilianti, ruoli iperburocr­atici inutili, improdutti­vi e percepiti come tali. Rispetto e dignità andranno sempre più cercati altrove. L’idea di un reddito di cittadinan­za ci può aiutare a tratteggia­re un futuro che non è solo continuazi­one e aggiustame­nto del presente. Ci invita a pensare fuori dagli schemi, a immaginare un modello di distribuzi­one più equo non solo di ricchezza e reddito, ma anche di rispetto, stima e controllo politico sulla vita della collettivi­tà.

Una corsa a rendersi competitiv­i, a inseguire un’economia sfuggente, rimpiazzat­i nelle nostre nuove competenze dai robot

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