Il Fatto Quotidiano

Bob Kennedy, quel “santo laico” dell’America migliore che non c’è più

50 ANNI FA Gli anni eroici e l’assassinio, come il fratello Jfk Le lotte contro la segregazio­ne razziale e le marce per i diritti dei latinos

- » FURIO COLOMBO

Quando cominci a parlare – nel mio caso, a riparlare – di Robert Kennedy, ti accorgi che qualcosa di diverso, di insolito e anche di difficile da spiegare, segna il ricordo e la riflession­e, rispetto a ogni altro politico. Per esempio, con Robert Kennedy sei entrato nella segregazio­ne razziale che conosceva ancora il linciaggio, e sei uscito in un mondo di diritti ottenuto con una sfida che è stata insieme di popolo e di governo, di grandi manifestaz­ioni di massa combattute contro una polizia accanitame­nte ostile (cani lupo, bastoni e pompe d’acqua), ma con a fianco un ministro della Giustizia disposto, con le truppe federali, a tener testa a un governator­e che aveva già schierato la sua guardia nazionale intorno alla sua università segregata. Il governator­e Wallace, a gambe divaricate, davanti al portone da non valicare, ha spiegato: “Sono stato eletto per questo”. Il ministro della Giustizia, Robert Kennedy, ha risposto. “Sei stato eletto giurando sulla Costituzio­ne”. Kennedy ha precisato che un’Alabama fuori dalla Costituzio­ne sarebbe stato anche fuori dagli Strati Uniti. Quella stessa sera il primo afroameric­ano ha fatto il suo ingresso nell’università fino ad allora segregata.

QUESTO EPISODIO, c om e tanti durante la lotta per i diritti civili, ci dice molto della tenacia e della forza morale di Robert Kennedy. Ma voglio far notare che ho detto forza morale, non forza politica. Politicame­nte Kennedy non era né più grande né più forte dei suoi elettori democratic­i al Congresso e nel Paese. Tutti sapevano tutto dell’esclusione e umiliazion­e dei neri, e non avevano, fino a quel momento, mosso un dito. Ma durante la lotta per i diritti civili, che ha visto il governo americano (in prima fila il ministro della Giustizia) schierato dalla parte degli umiliati e offesi, è emerso un aspetto nuovo, unico e breve nella politica americana: la forza morale. Comincia qui la presenza di un fatto nuovo di cui è rappresent­ante e portatore Robert Kennedy. Non è la politica che affronta il problema della spaccatura razziale del Paese, non saprebbe come e non può perché.

Il conflitto nasce completame­nte fuori dalla politica, e– attraverso la voce di Martin Luther King –, diventa la grande questione morale. Robert Kennedy la raccoglie e capisce che quella è la strada che va al di là del razzismo, al di là della vita dei poveri,

al di là delle disuguagli­an- ze mortali. E, poco dopo, al di là e contro la guerra nel Vietnam.

Robert Kennedy si rende conto di essere entrato (fin dall’uccisione di suo fratello) nell’area della non convenienz­a, che dissuade ogni politico, nell’area del pericolo, perché ti opponi troppo a troppe cose che hanno un peso (e un costo) troppo grande. La sua immagine, sempre più amata e seguita da masse di giovani, si contrappon­e a volti e poteri non visibili.

Il fenomeno strano, che resta unico nella nostra memoria, è che “la sua strada sbagliata” (cito il senatore Humphrey, democratic­o e amico di famiglia che rimprovera­va a Robert Kennedy) gli porta un successo popolare immenso che, subito prima di essere ucciso, ha travolto l’America.

Ho vissuto giorno per giorno quell’ultimo periodo di febbre affettuosa ed entusiasta, una febbre sempre più grande. Ho partecipat­o, giorno per giorno, all’ultima campagna elettorale di Robert Kennedy e ricordo, ogni sera, le mani piagate da decine di migliaia di strette di mano. Ma adesso, mentre ne scrivo nel giorno dell’anniversar­io del suo assassinio, non riesco a non ricordare un altro evento di cui Robert Kennedy è stato protagonis­ta. È accaduto due anni prima. L’ex ministro della Giustizia si era messo alla testa di una lunga marcia dei raccoglito­ri di uva messicani, portati in California come clandestin­i, per raccoglier­e l’uva di immense coltivazio­ni per paghe inesistent­i. La marcia a piedi partiva da El Centro e arrivava a Sacramento, e accanto a Robert Kennedy c’era Cesar Chavez, improvvisa­to sindacalis­ta dei contadini senza paga, uomo intelligen­te e analfabeta, capace di tener testa alle television­i in modo da coinvolger­e l’intera America in un famoso “sc i o pe r o dell’uva”.

ECCO, RIPENSANDO e rivedendo la testa del giovane leader assassinat­o, mentre viene scrutata dai flash e dalle telecamere, sul pavimento dell’Hotel Ambassador, mi ricordo di quella marcia in cui Robert Kennedy e Cesar Chavez parlavano insieme alla folla, l’uno nello spagnolo dei campi, l’altro nel suo inglese di Harvard. E mi domando: può esistere una santità laica? E come mai, adesso, il luogo in cui viviamo ( dall’America di Kennedy all’Italia di Spinelli e Colorni) sia diventato un mondo carogna, con le frontiere di filo spinato a lama di rasoio, in modo che i bambini con la faccia sfregiata siano i primi a imparare che le frontiere non si attraversa­no?

Hotel Ambassador Rivedo la testa del giovane leader ucciso, scrutata dai flash e dalle telecamere

La sua immagine, sempre più amata e seguita da masse di giovani, si contrappon­e a volti e poteri non visibili

L’ex ministro della Giustizia si mise alla testa di una lunga marcia dei raccoglito­ri di uva messicani

 ?? LaPresse ?? Stirpe reale Robert Kennedy in campagna elettorale il 1° giugno 1968. Sotto, all’Hotel Ambassador pochi istanti prima di essere ucciso
LaPresse Stirpe reale Robert Kennedy in campagna elettorale il 1° giugno 1968. Sotto, all’Hotel Ambassador pochi istanti prima di essere ucciso
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