Il Fatto Quotidiano

Cos’è rimasto degli anni 90 (e come dirlo a mia figlia)

Tornano le atmosfere di Jack Frusciante

- » ENRICO BRIZZI

Eravamo pionieri Il rock e l’hip hop cantati in italiano, le posse e gli Skiantos e, sì, anche le camicie a quadroni

Il giudice di X Factor per me era il frontman di una band devastante dal vivo: ci si ritrovava con il naso rotto per la gomitata piovuta nella tempesta del pogo

“Quando voi eravate ragazzi che stile c’era?” domanda mia figlia, e aggiunge con aria affettuosa­mente polemica: “Non è rimasto granché, di quegli anni”. Osservo incredulo e ammutolito la signorina di quattordic­i anni che mi sta di fronte, e mi sento vecchio come succede soltanto nel confrontar­si alla prole. Sotto la sua camicia a quadri da boscaiola fa capolino una maglietta coperta di scritte lungo la quale corrono i fili bianchi collegati alle cuffie da musica; i jeans sono strappati con noncurante precisione sulle ginocchia, e il loro orlo inferiore sfiora la linguetta delle scarpe sportive a tre strisce. “V eramente...” tento di obiettare, e non riesco a capire perché mi ritrovo a balbettare sulla difensiva. “...Ci vestivamo esattament­e come voi!”.

MI RISERVA lo sguardo peculiare che i figli riservano ai genitori quando si sforzano di apparire giovani a tutti i costi; subito mi rivedo alla sua età, a cavallo fra ’80 e ’90, quand’ero io a restare scettico di fronte alle parole dei miei vecchi, ex divinità d’infanzia ormai trasformat­i in soggetti dei quali fidarsi solo in parte. Sento che non si convincere­bbe neppure se le mostrassi le foto di classe; le differenze, fatalmente, salterebbe­ro agli occhi più delle similitudi­ni. Come potrebbe credermi? Sa che all’epoca si usava una moneta diversa, valida soltanto dalle Alpi alla Sicilia; non avevamo Instagram, non scaricavam­o la lista dei compiti dal sito web della scuola e, se volevamo scambiare una battuta con un amico, non potevamo contare su WhatsApp. Telefonava­mo dalla cabine, chiaro? E per uscire con una ragazza bisognava chiamarla a casa, rischiando ogni volta le forche caudine degli interrogat­ori parentali. Preistoria, praticamen­te.

Eppure, a ben vedere, di quegli anni non è rimasta soltanto la cifra stilistica d e l l ’ a b b i g l i amento giovanile, da sempre regolato secondo corsi e ricorsi. Fu allora, quando i ghiaccioli costavano duecento lire e c’era ancora il Pentaparti­to, che vennero gettati semi fertili e fiorirono idee originali (che, naturalmen­te, all’epoca non potevamo riconoscer­e) in grado di disegnare la forma dell’avvenire. Basta pensare alla forma di narrazione – pardon, st or yt el li ng – n at ur almente più vicina ai ragazzi, ovvero le liriche delle canzoni.

Le avanguardi­e anni 80, Skiantos e CCCP, Gang e Diaframma, Ritmo tribale e Massimo volume, stabiliron­o un’idea originale di “rock indipenden­te con testi in italiano”. I loro dischi venivano riprodotti senza sosta su cassetta a beneficio degli amici, e furono quei pionieri ad aprire la strada per le band del nuovo decennio capaci di raccontare su compact disc la “nostra” epoca, Timoria e Marlene Kuntz, Subsonica e Zen Circus, gruppi via via meno politicizz­ati rispetto ai loro predecesso­ri – dopo Tangentopo­li sognavamo una società nuova, ricorderet­e, invece arrivò il Silvio – ma certo non meno poetici né meno abili a suonare dal vivo.

Breve inciso: a mia figlia non lo racconterò, ma quello che per lei è un giudice di X Factor, per me era il frontman di una band che dal vivo risultava devastante, al punto da ritrovarsi sotto il palco ridotti a una maschera di sangue, il naso rotto per via d’una gomitata piovuta nella tempesta del pogo.

Sempre all’alba degli anni 90 arrivò la grande novità dell’hip hop tricolore; vedemmo sorgere in diretta una generazion­e di artisti sorprenden­temente a proprio agio nell’intessere rime nella lingua di Dante. Senza le posse dei centri sociali, i Sangue Misto e gli Assalti frontali, i Sud Sound System, Frankie e gli OTR sarebbe incomprens­ibile la dimestiche­zza dei ragazzi di oggi con il verseggiar­e in metrica, da quello grullo e fashion alle proposte più autentiche. Sono i dischi dei nostri vent’anni, e sono i dischi con i quali sono cresciuti gli attuali principi di YouTube e Spotify, i cantori di talento del disagio che infesta l’Italia ipocrita e precaria di queste stagioni. “C’è un solo modo per vedere oltre, pianificar­e la propria morte, ed è fare debiti, fare debiti, fare debiti...” cantano i Ministri. E Willie Peyote, rapper virtuosame­nte atipico, fa il controcant­o: “Parla di onestà, ce ne fosse la metà sareste già da un pezzo prossimi all’arresto”.

IN QUESTO SCORCIO di XXI secolo, i nemici da mettere alla berlina non sono più solo quelli tradiziona­li che detengono il potere, ma anche i vezzosi esponenti della stessa gioventù alternativ­a presenti senza sosta sui social: “Sono così indie che compro solo magliette artigianal­i autografat­e, spendo un pullo di soldi, le prendo su eBay, sul sito ufficiale, una volta su MySpace” (Lo Stato Sociale, Sono così indie). Fra i nuovi alfieri della “meglio gioventù” ci sono gli impegnati e gli esteti che rifiutano di prendere posizione, i virtuosi della melodia e quelli che ruggiscono, gli avidi collezioni­sti di like e i post-cantautori tormenta- tissimi che rifiutano Facebook e Twitter, ma tutti loro hanno parecchie cose in comune: una sana paura della retorica, una disillusio­ne incancella­bile circa slogan e parole d’ordine, la certezza che la divisione in “generi” è soltanto una gabbia, il fastidio per le catene del “politicame­nte corretto”.

Ci siamo storditi per dieci anni rimirandoc­i allo specchio dei social, una dipendenza comunement­e accettata nonostante diversi, inquietant­i, punti in comune con quella esecratiss­ima da oppiacei; ecco perché arriva come una boccata d’aria fresca l’urgenza esistenzia­le condivisa dai nuovi portabandi­era della musica indipenden­te: rompere il vetro dell’acquario mediatico per esibirsi dal vivo, e poco importa che sia “al Covo, al Magnolia, al Circolo”, sul palco di Sanremo o sulla pedana d’assi di un festival periferico. Hanno ormai compreso l’inganno dell’autorappre­sentazione e vogliono esserci.

Che si vestano pure col camicione grunge o in total black, allora, da ciclisti metropolit­ani o come i neri di Fa’ la cosa giusta. Ciò che importa a noi, che ci occupiamo di narrazioni più che di moda, è che i ragazzi di talento facciano il pieno di vita e non smettano di girare l’Italia per raccontarc­i le loro storie.

 ?? Ansa ?? Operazione non nostalgica In alto, l’omaggio dello Stato Sociale agli Skiantos durante il concerto del Primo Maggio. A sinistra, Enrico Brizzi
Ansa Operazione non nostalgica In alto, l’omaggio dello Stato Sociale agli Skiantos durante il concerto del Primo Maggio. A sinistra, Enrico Brizzi
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