Cos’è rimasto degli anni 90 (e come dirlo a mia figlia)
Tornano le atmosfere di Jack Frusciante
Eravamo pionieri Il rock e l’hip hop cantati in italiano, le posse e gli Skiantos e, sì, anche le camicie a quadroni
Il giudice di X Factor per me era il frontman di una band devastante dal vivo: ci si ritrovava con il naso rotto per la gomitata piovuta nella tempesta del pogo
“Quando voi eravate ragazzi che stile c’era?” domanda mia figlia, e aggiunge con aria affettuosamente polemica: “Non è rimasto granché, di quegli anni”. Osservo incredulo e ammutolito la signorina di quattordici anni che mi sta di fronte, e mi sento vecchio come succede soltanto nel confrontarsi alla prole. Sotto la sua camicia a quadri da boscaiola fa capolino una maglietta coperta di scritte lungo la quale corrono i fili bianchi collegati alle cuffie da musica; i jeans sono strappati con noncurante precisione sulle ginocchia, e il loro orlo inferiore sfiora la linguetta delle scarpe sportive a tre strisce. “V eramente...” tento di obiettare, e non riesco a capire perché mi ritrovo a balbettare sulla difensiva. “...Ci vestivamo esattamente come voi!”.
MI RISERVA lo sguardo peculiare che i figli riservano ai genitori quando si sforzano di apparire giovani a tutti i costi; subito mi rivedo alla sua età, a cavallo fra ’80 e ’90, quand’ero io a restare scettico di fronte alle parole dei miei vecchi, ex divinità d’infanzia ormai trasformati in soggetti dei quali fidarsi solo in parte. Sento che non si convincerebbe neppure se le mostrassi le foto di classe; le differenze, fatalmente, salterebbero agli occhi più delle similitudini. Come potrebbe credermi? Sa che all’epoca si usava una moneta diversa, valida soltanto dalle Alpi alla Sicilia; non avevamo Instagram, non scaricavamo la lista dei compiti dal sito web della scuola e, se volevamo scambiare una battuta con un amico, non potevamo contare su WhatsApp. Telefonavamo dalla cabine, chiaro? E per uscire con una ragazza bisognava chiamarla a casa, rischiando ogni volta le forche caudine degli interrogatori parentali. Preistoria, praticamente.
Eppure, a ben vedere, di quegli anni non è rimasta soltanto la cifra stilistica d e l l ’ a b b i g l i amento giovanile, da sempre regolato secondo corsi e ricorsi. Fu allora, quando i ghiaccioli costavano duecento lire e c’era ancora il Pentapartito, che vennero gettati semi fertili e fiorirono idee originali (che, naturalmente, all’epoca non potevamo riconoscere) in grado di disegnare la forma dell’avvenire. Basta pensare alla forma di narrazione – pardon, st or yt el li ng – n at ur almente più vicina ai ragazzi, ovvero le liriche delle canzoni.
Le avanguardie anni 80, Skiantos e CCCP, Gang e Diaframma, Ritmo tribale e Massimo volume, stabilirono un’idea originale di “rock indipendente con testi in italiano”. I loro dischi venivano riprodotti senza sosta su cassetta a beneficio degli amici, e furono quei pionieri ad aprire la strada per le band del nuovo decennio capaci di raccontare su compact disc la “nostra” epoca, Timoria e Marlene Kuntz, Subsonica e Zen Circus, gruppi via via meno politicizzati rispetto ai loro predecessori – dopo Tangentopoli sognavamo una società nuova, ricorderete, invece arrivò il Silvio – ma certo non meno poetici né meno abili a suonare dal vivo.
Breve inciso: a mia figlia non lo racconterò, ma quello che per lei è un giudice di X Factor, per me era il frontman di una band che dal vivo risultava devastante, al punto da ritrovarsi sotto il palco ridotti a una maschera di sangue, il naso rotto per via d’una gomitata piovuta nella tempesta del pogo.
Sempre all’alba degli anni 90 arrivò la grande novità dell’hip hop tricolore; vedemmo sorgere in diretta una generazione di artisti sorprendentemente a proprio agio nell’intessere rime nella lingua di Dante. Senza le posse dei centri sociali, i Sangue Misto e gli Assalti frontali, i Sud Sound System, Frankie e gli OTR sarebbe incomprensibile la dimestichezza dei ragazzi di oggi con il verseggiare in metrica, da quello grullo e fashion alle proposte più autentiche. Sono i dischi dei nostri vent’anni, e sono i dischi con i quali sono cresciuti gli attuali principi di YouTube e Spotify, i cantori di talento del disagio che infesta l’Italia ipocrita e precaria di queste stagioni. “C’è un solo modo per vedere oltre, pianificare la propria morte, ed è fare debiti, fare debiti, fare debiti...” cantano i Ministri. E Willie Peyote, rapper virtuosamente atipico, fa il controcanto: “Parla di onestà, ce ne fosse la metà sareste già da un pezzo prossimi all’arresto”.
IN QUESTO SCORCIO di XXI secolo, i nemici da mettere alla berlina non sono più solo quelli tradizionali che detengono il potere, ma anche i vezzosi esponenti della stessa gioventù alternativa presenti senza sosta sui social: “Sono così indie che compro solo magliette artigianali autografate, spendo un pullo di soldi, le prendo su eBay, sul sito ufficiale, una volta su MySpace” (Lo Stato Sociale, Sono così indie). Fra i nuovi alfieri della “meglio gioventù” ci sono gli impegnati e gli esteti che rifiutano di prendere posizione, i virtuosi della melodia e quelli che ruggiscono, gli avidi collezionisti di like e i post-cantautori tormenta- tissimi che rifiutano Facebook e Twitter, ma tutti loro hanno parecchie cose in comune: una sana paura della retorica, una disillusione incancellabile circa slogan e parole d’ordine, la certezza che la divisione in “generi” è soltanto una gabbia, il fastidio per le catene del “politicamente corretto”.
Ci siamo storditi per dieci anni rimirandoci allo specchio dei social, una dipendenza comunemente accettata nonostante diversi, inquietanti, punti in comune con quella esecratissima da oppiacei; ecco perché arriva come una boccata d’aria fresca l’urgenza esistenziale condivisa dai nuovi portabandiera della musica indipendente: rompere il vetro dell’acquario mediatico per esibirsi dal vivo, e poco importa che sia “al Covo, al Magnolia, al Circolo”, sul palco di Sanremo o sulla pedana d’assi di un festival periferico. Hanno ormai compreso l’inganno dell’autorappresentazione e vogliono esserci.
Che si vestano pure col camicione grunge o in total black, allora, da ciclisti metropolitani o come i neri di Fa’ la cosa giusta. Ciò che importa a noi, che ci occupiamo di narrazioni più che di moda, è che i ragazzi di talento facciano il pieno di vita e non smettano di girare l’Italia per raccontarci le loro storie.