Il Fatto Quotidiano

Occhio ai clic: l’azienda ti licenzia se la critichi

Nuova éra Si moltiplica­no le sentenze sui lavoratori per i post contro le proprie aziende: “Rompono la fiducia col datore”

- » VIRGINIA DELLA SALA

Sempre più cause si ■ chiudono con la sconfitta del dipendente cacciato perché si è sfogato su Facebook. Basta una critica indiretta, senza neppure nominare l’impresa, e si passa dalla parte del torto

Alla fine è arrivata la sentenza della Cassazione: licenziame­nto per giusta causa nei confronti di una impiegata di Forlì che sul suo profilo Facebook si era lasciata andare a uno sfogo contro la sua azienda: “Mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e della proprietà” è il post riportato sulla sentenza. Secondo i giudici, di carattere diffamator­io e tale da aver definitiva­mente incrinato il rapporto di fiducia tra dipendente e datore di lavoro. Non è però la prima volta né l’unico caso di licenziame­nti e sanzioni disciplina­ri dovuti ai social network. Basta una breve ricerca per rintraccia­re una esplicativ­a casistica, come quella riportata dal sito Workengo, che si occupa di reputazion­e online. Ma partiamo da Forlì.

LA VICENDAris­ale al 2012. La donna pubblica sul suo profilo Facebook un post che nella sentenza della Cassazione viene riportato tra virgolette: “Mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e della proprietà”. Tra i suoi amici virtuali, però, c’è anche un collega nonché il legale della società. La donna cancella il post ma viene licenziata e la sanzione viene confermata in primo e in secondo grado. “La diffusione di un messaggio diffamator­io attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazio­ne, per la potenziale capacità di raggiunger­e un numero indetermin­ato di persone – scrivono i giudici della Suprema Corte – pertanto la condotta integra gli estremi della diffamazio­ne e come tale correttame­nte il contegno è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo”. Giusta causa, dunque. La difesa ha provato a spiegare che la donna, 43 anni e invalida al 67%, non era consapevol­e della eco che avrebbe avuto il suo sfogo, che credeva corrispond­esse a una chiacchier­ata con un gruppetto di amici. La fine del rapporto di fiducia, spiegano i giudici, c’è indipenden­temente dalla natura colposa della diffamazio­ne. E anche se l’azienda non era citata direttamen­te, il destinatar­io era facilmente identifica­bile.

A Nichelino (Torino) nel 2015, una dipendente di una mensa scolastica condivide sul proprio profilo Facebook il post di un politico che denuncia il ritrovamen­to di insetti nella purea servita agli alunni. Si limita a commentare: “Mah… io una polenta con aggiunta di scarafaggi non la mangerei volentieri”. L’azienda se ne accorge e la licenzia (guadagnava 370 euro al mese) nonostante non avesse nominato la mensa in cui lavorava direttamen­te e nonostante avesse condiviso il post in un profilo con impostazio­ni di privacy private.

Nel 2014 era toccato invece a una dipendente della Perugina, licenziata per aver criticato un capo-reparto con un post su Facebook. Nel messaggio raccontava di aver sentito che diceva a un collega che per lui era necessario il collare. Nonostante le proteste sindacali, l’azienda non si era scomposta e, contro la dipendente (che era oltretutto una sindacalis­ta) aveva sostenuto che il caporepart­o stesse riprendend­o il dipen- dente per la scarsa osservazio­ne delle norme di sicurezza e igiene. “Da un esponente sindacale – aveva spiegato la Nestlé – che ha la responsabi­lità di rappresent­are centinaia di persone che lavorano nel più grande stabilimen­to del Gruppo Nestlé in Italia, ci si attendeva il sostegno e non la critica agli sforzi rivolti a salvaguard­are la sicurezza sul posto di lavoro, l’igiene e la qualità del prodotto”.

E ancora. Nel 2012 un operaio abruzzese era stato adescato su Facebook dal proprio capo “sotto mentite spoglie”. Il titolare aveva creato un falso profilo femminile sulla piattaform­a e si era accorto che il dipendente aveva preferito chattare invece di occuparsi di una lamiera incastrata sotto una pressa. La Cassazione aveva riconosciu­to legittimo lo strumento di “in v e s t i g az i o n e ” an c h e perché il lavoratore avrebbe avuto anche in precedenza atteggiame­nti d’allarme: “Il lavoratore – si legge nella sentenza – era stato sorpreso al telefono lontano dalla pressa cui era addetto ed era stata scoperta la sua detenzione in azienda di un dispositiv­o elettronic­o utile per conversazi­oni via Internet”.

I MOTIVI dei licenziame­nti a causa dei social sono, comunque, molti. “Attenzione anche a usare troppo i social durante l’orario di lavoro, non è una grande idea”, si legge su Workengo . L’esempio è una sentenza del 2016 del Tribunale di Brescia in cui il datore di lavoro aveva calcolato che la sua dipendente ogni tre ore effettuava circa 16 accessi a Facebo ok sottraendo, secondo il giudice, tempo all’ attività lavorativa e incrinando così il rapporto di fiducia tra lei e il suo datore di lavoro. “Se poi siete assenti dal lavoro e pubblicate foto mentre fate aperitivo o siete al mare invece di essere sotto le coperte e stravolti dalla febbre come avevate assicurato–spiegano ancora gli esperti di Workengo – beh… non si può dire che il vostro licenziame­nto sia immotivato da molteplici punti di vista”. E ricordano il caso del dipendente di Veneto Banca licenziato perché, dopo aver richiesto un permesso per stress psicofisic­o, era poi andato al concerto di Madonna.

Un messaggio denigrator­io su Facebook è diffamazio­ne perché raggiunge tante persone

Attenzione anche a usare troppo i social durante l’orario di lavoro, non è una grande idea

Diffamare sui social è giusta causa del recesso perché recide la fiducia nel rapporto di lavoro

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Ansa Gli studenti minacciano scioperi e cortei contro il nuovo governo
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