Il Fatto Quotidiano

“BREGA MENAVA, MA DAVVERO”

Mario, il caratteris­ta dei suoi primi film

- » ALESSANDRO FERRUCCI

Marcello,

alias Christian

De Sica, in Borotalco ne era certo: “Se c’è ’na cosa che m’accide è l’indifferen­za”. E magari quella lezione era stata metabolizz­ata anche da Mario Brega, offeso, anzi offesissim­o con chi gli aveva regalato ruolo e fama; ruolo ed eternità cinematogr­afica: “Dopo Troppo Forte si è incavolato perché non gli ho più ritagliato uno spazio, e se qualcuno gli domandava di me, rispondeva sempre: ‘Verdone? Non lo conosco’. Era così, negli ultimi anni di vita mi ha offerto lo stesso trattament­o riservato un tempo a Sergio Leone”. Alto quasi un metro e novanta, o più, dipende da chi lo ha visto tranquillo o iroso, un addome che definire importante è riduttivo, mani da carpentier­e o da picchiator­e.

Marcello, alias Christian De Sica, in Borotalco ne era certo: “Se c’è ‘na cosa che m’accide è l’i ndif fere nza”. E magari quella lezione era stata metabolizz­ata anche da Mario Brega, offeso, anzi offesissim­o con chi gli aveva regalato ruolo e fama; ruolo ed eternità cinematogr­afica: “Do po Troppo Forte si è incavolato perché non gli ho più ritagliato uno spazio, e se qualcuno gli domandava di me, rispondeva sempre: ‘Verdone? Non lo conosco’. Era così, negli ultimi anni di vita mi ha offerto lo stesso trattament­o riservato un tempo a Sergio Leone”.

Alto quasi un metro e novanta, o più, dipende da chi lo ha visto tranquillo o iroso, un addome che definire importante è riduttivo, mani da carpentier­e o da picchiator­e specializz­ato, una vita spesso al limite, a Roma definita da “coatto antico”, quando la criminalit­à diventava quasi fisiologic­a, l’oro addosso il parametro di valutazion­e e la paura andava sfidata. Qui in mezzo c’era Mario Brega, uno dei grandi caratteris­ti della cinematogr­afia italiana, maschera per Leone prima, Verdone poi, quindi i Vanzina nel padre di tutti i Vacanze di Natale e altri ammennicol­i da set (su Brega è uscita una biografia, Ce sto io… poi ce sta De Niro di Ezio Cardarelli, edizioni “A est dell’Equatore”). Verdone, quindi non la conosceva: il casus belli?

Un giorno gli ho chiesto il perché dell’attrito con Leone, e Mario: “Sergio me doveva dà trenta pose, alla fine so’d iventate tre”. E parliamo di C’era una volta in America, dove a sentire lui aveva recitato quasi alla pari di De Niro.

Stessa situazione con lei. Non l’ho più coinvolto, quindi ero rientrato nel novero dei colpevoli; però lo conoscevo bene, dentro sorridevo.

Non si è offeso.

Mai. Con Mario Brega poche mediazioni: prendere o lasciare.

Sembra lo stereotipo del romano un po’bugiardo, un po’ megalomane, un po’ millantato­re.

Aveva un carattere irruento e creativo, il prototipo del “pad r i n o” di una certa Roma compresa tra la Magliana e via Veneto: la sua struttura fisica, lo sguardo, il tono della voce, gli ori, il tutto incuteva timore. A volte terrore.

Della serie: meglio amico. Il sottile confine del suo carattere lo portava a slanci di generosità enorme: magari litigava, poi ti dava dello stronzo, urlava, se ne andava, sbatteva la porta, e dopo due giorni tornava con un paio di scarpe di gran marca. Conosceva tutti i negozi di via Veneto.

Anche con lei?

A me, Sergio Leone e Carlo Simi (scenografo) ha regalato qualsiasi cosa.

Perché proprio le scarpe? Era un patito dell’eleganza, come un vecchio boss di via Veneto in stile anni Sessanta: indossava completi bianchi, anello al mignolo, occhiali costosi, e grande attenzione al tessuto della camicia, della giacca e delle scarpe, per offrire a tutti il parametro giusto della sua autorevole­zza. Per il romano del tempo la scarpa rappresent­ava il massimo.

Riscatto sociale.

Nasceva da una famiglia dignitosa ma non benestante, con il padre lavoratore e olimpionic­o su percorsi lunghi, tipo 1.500 metri e 3.000...

Però mitomane.

Un po’ sì, con un carattere in grado di travolgere gli altri, e con l’utilizzo di una bella faccia tosta; Mario Brega lo dovevi prendere per due motivi: o perché avvertivi un certo timore, o perché realmente ti serviva una figura del genere. In scena portava se stesso. Ha accentuato i suoi lati per crearsi un personaggi­o. No, sono stato io a segnargli un percorso: nei film di Leone era sempre il cattivo, pronunciav­a una o due parole e poi prendeva a cazzotti Clint Eastwood o Lee Van Cleef. Basta. Menava. Menava sempre. Compreso Volonté.

Brega era il triplo di Volonté.

Lo so, però Gian Maria aveva uno sguardo un po’ da matto; comunque a Mario non je ne fregava niente: siccome Vo- lonté non aveva saldato un debito di poker, allora lo gonfiò di botte e parolacce. Picchiare Volonté era sacrilegio.

Per tutti noi Gian Maria era un rivoluzion­ario con il quale si scherzava poco, e sapere che era stato picchiato da Mario e per il poker, ci causò qualche risata. Lo ammetto.

Brega se ne sarà vantato. Era il suo repertorio, così come la scazzottat­a con Gordon Scott, quando i due recitavano nello stesso film, Buffalo Bill, l’Eroe del Far West( 1964) e Mario lo stese con un pugno al volto perché, secondo lui, aveva subìto qualche cazzotto reale durante le riprese. Sì, Brega nel cinema portava le sue imprese, e in qualche modo narrava sempre la stessa vicenda.

Di scazzottat­e.

Il copione era: un tizio gli diceva qualcosa di sbagliato, lui replicava, poi partiva il cazzotto con il quale gli frantumava le mucose, rompeva il setto nasale, cadeva a terra come Gesù Cristo mentre lui infieriva urlando: “Arzateeeee!”. Ha assistito a una sua rissa?

Mai, però l’ho visto incazzato, e suscitava paura.

Con lei si scocciò per le poche pose in “Bianco, Rosso e Verdone”.

Quando gli spedii il copione, il giorno dopo venne a casa mia: “M’aveva detto Sergio che nel film ce dovevo s t a’ come er prezzemolo, e invece tu m’hai dato solo cinque pose. Ciiinque poseeee!”. Poi concluse lo sfogo con uno sputo sullo scritto, “trovate n’antro attore”. Andò via.

E lei?

Per superare l’effetto-Brega l’unica chance era quella di restare in silenzio, allargare le braccia e adottare un’espression­e sottomessa. Il giorno dopo si presentò con un paio di scarpe, sempre di marca. In “Bianco, Rosso e Verdon e” il suo personaggi­o è cult.

Sono contento di un aspetto: aver fermato nel tempo gli ultimi grandi caratteris­ti del cinema italiano, Mario Brega ed Elena Fabrizi ( Sora Lella); quando Roma resisteva ag- grappata alla sua storia popolare e trasteveri­na, quando si chiacchier­ava da finestra a finestra, la strada era un teatro, la piazza un enorme palcosceni­co. Poi dagli anni Ottanta tutto è mutato.

Cosa è accaduto?

I romani sono stati deportati in periferia, nei grandi palazzi-alveari.

Fabrizi e Brega li ha fatti incontrare proprio in “Bianco, Rosso e Verdone”...

E proprio la Sora Lella è un pa- rametro di quell’immaginari­o collettivo, tanto da cadere in un presunto assurdo: noi conosciamo la grandezza di Aldo Fabrizi, attore straordina­rio sia nel drammatico che nel comico, però se oggi domandate a un liceale chi ama maggiormen­te tra lei e il fratello, la risposta è: “Aldo Fabrizi, chi?”.

I giovani non conoscono neanche Mastroiann­i.

E Tognazzi? In una scuola di cinema si parlava di comme-

Sul set come una star Arrivava con tre persone: uno con il phon, un altro con il pettine, l’ultimo con la spazzola. Tutti ex pugili

dia italiana, quindi consiglio la visione dei film con Ugo e subito gli studenti mi fermano: “Quale dei due fratelli?”. Per spiegargli chi era Ugo Tognazzi ci ho impiegato molto, e sono andato via incazzato. Torniamo a Brega, e a due parole chiave: poker e donne.

Mai vista una donna, su questo era riservato, e poi lo incontravo solo sui set o a casa di Sergio Leone. Frequentav­a così tanto Leo- ne? Credo tutti i giorni, addirittur­a più volte al dì. Si presentava con una serie infinita di regali, magari una cassetta di melanzane, un’altra di carciofi, poi le arance, l’olio: “A Se’, assaggia! Senti che d’è!” (Verdone allunga il dito indice, mima la scena, e sembra uno sketch del suo “Borotalco”). Proprio a casa di Leone ha deciso di prenderlo per “Un sacco bello”. Spesso andavo a lavorare da

Sergio e un pomeriggio mi dice: “Dobbiamo decidere chi interpreta il padre dell’hippie”. E giù ipotesi, nessuna emozionant­e. Dopo un po’ entra nella stanza Brega con la montatura degli occhiali d’oro, un crocifisso enorme al centro del petto, una serie di anelli, il suo vestito di lino bianco, e le solite cassette di frutta e verdura: “Tié, queste arrivano daaaa Calabria”. Lei si illumina...

Guardo Sergio: “È lui”. Brega capisce: “Ma che mestai a propone ‘na parte?”. Sì. “Bello vie

quaaa”, e mi abbraccia quasi a stritolarm­i. Improvvisa­mente ero diventato il suo idolo.

Perché questo rapporto tra Brega e Leone?

Mi meraviglia­vo perché uno come Sergio, uno molto tosto, con Brega derogava. Brega andava spesso in via Veneto?

Ai tempi della Dolce Vita era fisso, conosceva tutti i camerieri, era bello come dava le mance, come domandava da bere, come si rapportava ai proprietar­i dei night club; e manteneva un occhio a 360 gradi su quello che scorreva attorno, era come una telecamera. Allora se ti potevi permettere di perdere tre ore della tua vita in via Veneto, significav­a che eri uno arrivato. Il cinema per lui è stato più un mezzo che passione?

Era innamorato del personaggi­o che interpreta­va, era un po’ vanesio, e con quel carattere complicati­ssimo. Era pure capriccios­o. Imponeva sempre il suo truccatore e il suo parrucchie­re. Una star.

Si portava dietro tre capigruppo: uno reggeva il pettine, un altro il phon, il terzo lo spazzolava. Erano ex pugili, chiamati solo con il soprannome. Un uomo di rispetto...

Questo era quello che amava, e l’aveva raggiunto grazie alle pellicole girate con me... pensare che quando è uscito Bian

co, Rosso e Verdone, il film venne criticato rispetto a Un

sacco bello, e il botteghino non proprio dorato. Un successo alla distanza.

Tutti i miei film, compreso Compagni di scuola, hanno ottenuto il tributo dopo un po’di anni. Lì per lì ho preso critiche, alcune brutte, soprattutt­o con Bianco, Rosso e Verdone, ricordo un articolo di Repubblica, dal titolo: Che ci fan- no tre cretini sull’autostrada. E lei?

Pensai: ‘ Ho sbagliato film’. Po imi venne in soccorso Sergio Citti: lo incontro un pomeriggio, ascolta il mio dispiacere, e alla fine :‘ Sbattitene il cazzo, tu hai girato un film de ‘ na poesia straordena­ria, la scena del cimitero vale tutto. Te lo dice Sergio Citti. Fidate’. Aveva ragione. In “Borotalco” quante volte avete girato la scena storica dell’alimentari? Pochissime. Il racconto di Mario Brega dentro al negozio, quando picchia due persone per strada, è un episodio reale della sua vita, quindi l’ ho lasciato libero; mentre la battuta dell’oliva ‘greca’è una mia l’aspetto improvvisa­zione. complicato era Con otte- lui nere ce, come un tono quando più baso parlava della con vol’hippie in Un sacco bello. Urlava perennemen­te. Perennemen­te sopra le righe.

Angelo Infanti è molto conosciuto grazie al suo personaggi­o di Manuel Fantoni. Angelo era un attore vero, bravissimo e con un carattere raro per mitezza e allegria. Brega riuscì a litigare pure con lui. Secondo i fratelli Vanzina, la scomparsa dei caratteris­ti è dovuta ai comici che hanno iniziato a realizzare film... Un po’ è vero: io sono un comico e regista, eppure i caratteris­ti li ho utilizzati. E qual è la parte assolutame­nte vera dell’affermazio­ne? Arrivo da una scuola seria di regia, mentre gli altri sono bravissimi a spararsi la macchina addosso, ma non hanno mai caratteriz­zato il contorno; e poi si sono affidati solo al

direttore della fotografia per chiudere il film: la geometria delle riprese non è semplice, tra campo, controcamp­o e carrello. Bisogna studiare. E poi...

Molti attori commettono un errore: pensano di poter interpreta­re un ruolo da protagonis­ta, quando in realtà non hanno la struttura per reggere, mentre sarebbero degli eccellenti caratteris­ti. È una forma di presunzion­e. I nuovi caratteris­ti.

Oggi per cercarli non bisogna tentare le strade segnate da Mario Brega o Lella Fabrizi, quello è un tempo morto, tempi finiti; oggi possono essere gli egiziani, i pachistani, i rumeni e l’ho capito anche dalla colazione della mattina, quando dedico almeno trequarti d’ora per parlare con gli avventori del bar e solo il 50 per cento sono italiani. Gli stranieri conoscono i suoi film?

Molti dicono di aver imparato l’italiano grazie a me, Bene

detta Follia lo abbiamo venduto in molti Paesi stranieri, anche i Balcani; anni fa mi dedicarono una personale a San Pietroburg­o, e a pochi giorni dal debutto squilla il telefono, dall’istituto italiano di cultura, sono in allarme: “C’è una lista altissima di prenotazio­ni”. Non capivano. Poi hanno scoperto un sito pirata, segui-

tissimo, grafia sottotitol­ata con tutta la mia in russo. filmoLe Mario sue idee Brega politiche era fascista? si avvicinava­no lì, soprattutt­o per tradizione familiare: il padre, da sportivo, per una medaglia aveva ricevuto l’encomio del Duce. E quando avete girato la scena del “a zoccole’ so’ comunista così!”, con lui che alza due pugni chiusi? Non fu semplice convincerl­o, avrebbe preferito il braccio teso; alla fine si arrese, con la frase: ‘Va bene, accetto, ma la giro comunque a modo mio’. Urlando...

Come sempre... Però a noi deve interessar­e l’attore. Quello conta. Il privato vale fino a un certo punto.

( E come diceva Brega in “Bianco Rosso e Verdone”: “’Sta mano po’ esse fero e po’ esse piuma: oggi è stata ‘na piuma”. Vale anche con le parole...)

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Contrasto Contrasto Ori e scarpe firmate Nella foto grande, Mario Brega con Carlo Verdone in “Un sacco bello”. Sotto, il regista con Eleonora Giorgi in “Borotalco” Un bruto Dall’alto, Angelo Infanti e Moana Pozzi in “Borotalco” Lella Fabrizi, Mario Brega con Verdone in...
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