La distanza inevitabile tra discorsi e coperture
Nessuno degli ultimi premier ha detto subito dove tagliare. Ma le promesse erano più vaghe
Si chiude la prima settimana del governo Conte con la domanda che ha accompagnato il suo debutto: dove troverà i soldi per mantenere le promesse fatte nel doppio discorso della fiducia a Camera e Senato?
LA SESSIONE di bilancio si aprirà in autunno, qualche accenno di negoziato con la Commissione è già cominciato, in attesa di capire se ci sarà una linea di trattativa dura (come temono i critici del ministro degli Affari europei Paolo Savona) o pacata nello stile di Enzo Moavero, ministro degli Esteri sempre attento ai dossier europei.
Il dibattito così precoce sulle coperture è uno dei pochi effetti concreti già registrati del “cambiamento” promesso dal tandem “Salvimaio”. Per almeno tre ragioni.
Primo: i discorsi di insediamento degli ultimi tre pre- mier, a differenza di quello di Conte, non contenevano la promessa di misure specifiche. Enrico Letta (Pd), il 29 aprile del 2013 parlava di una “riduzione fiscale senza indebitamento che sarà un obiettivo continuo e a tutto campo”, ma poi citava soltanto il blocco dell’Imu sulla prima casa dal mese seguente, misura pretesa da Forza Italia allora in maggioranza e che vale 4 miliardi all’anno. Matteo Renzi, il 24 febbraio 2014, annunciava una “riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale, attraverso misure serie e irreversibili, legate alla revisione della spesa”, primo accenno del bonus 80 euro, e prometteva il Jobs Act, senza però dettagliare. Paolo Gentiloni, il 14 dicembre 2016, presenta il suo “esecutivo di responsabilità” ma non accenna all’intervento da 20 miliardi una tantum che avrebbe varato di lì a pochi giorni per il settore bancario.
GIUSEPPE CONTE, invece, deve citare nel suo discorso i capisaldi del contratto di governo: reddito di cittadinanza e flat tax, interventi pesanti che possono costare, a seconda delle scelte del governo, da un minimo di 7 a un massimo 80 miliardi all’anno.
La seconda differenza è che Conte eredita una clausola di salvaguardia – introdotta dal governo Rernzi – da 12,5 miliardi (soldi da trovare entro dicembre o a gennaio sale l’Iva) e una richiesta di manovra correttiva da parte dell’Unione europea da 10 miliardi. Anche sui governi precedenti pendevano scadenze simili, eredità di misure senza copertura che risalgono addirittura al governo Berlusconi del 2011, ma la differenza è che i governi Renzi e Gentiloni hanno già usato tutta la flessibilità nelle regole di bilancio europee che l’Italia era riuscita a ottenere nel 2015: 19 miliardi spariti tra bonus e incentivi alle assunzioni. Conte, almeno stando alle regole attuali, non può contare su simili deroghe.
La terza ragione per cui c’è tanta attenzione sulle coperture nel caso di Conte è che, a differenza dei suoi tre predecessori, dovrà attuare la sua politica economica senza l’ombrello della Bce. Dal luglio 2012 Mario Draghi, dal vertice di Francoforte, ha rassicurato i mercati con la promessa prima e la concretezza poi di politiche straordinarie. A settembre quel ciclo inizierà a chiudersi, con la quasi certa riduzione degli acquisti di titoli di Stato (oggi 30 miliardi al mese). Le tensioni sui mercati obbligazionari e la salita dello spread si spiegano anche così: se sale la spesa per interessi, Conte avrà ancora meno risorse per attuare il programma del contratto Salvimaio.
LE DOMANDE sulle coperture, comunque, rimarranno senza risposta almeno fino a settembre quando il governo dovrà presentare la sua prima nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza. E indicare quanto deficit vuole fare davvero.
Il debito pubblico lo vogliamo ridurre, ma vogliamo farlo con la crescita della nostra ricchezza, non con le misure di austerità