La diagnosi sulla sconfitta che il Pd non vuol sentire
MÈ nato a Trieste nel 1961. È stato deputato del Pd dal 2006 al 2018, quando ha rifiutato una candidatura da “paracudato” nel Rosatellum. Ha appena pubblicato un libro con una analisi del voto del 4 marzo per Donzelli, con le sue idee su come ripartire. Ne anticipiamo un brano del capitolo dedicato al futuro del Pd eglio evitare giri di parole. Il Partito democratico venne pensato per la gente, per il “popolo”. Ma la messa in opera ha avuto un timbro diverso. Il disegno, utopico nell’ispirazione, è stato cucito come un vestito di sartoria per un ceto politico. Molti dei guasti di adesso derivano da quella scelta. Dopo la sconfitta peggiore della nostra vita, senza una correzione alla radice il progetto non avrà terra per ricrescere. Cosa c’era di più ambizioso della fusione tra ceppi divisi del riformismo italiano? Cattolici, comunisti, socialisti, verdi, radicali (pochi), amanti dei diritti e del diritto, azionisti per elezione, liberali e modernisti, senza patria o partito, donne, uomini, ragazzi, intellettuali, precari, casalinghe, pensionati, reduci dell’altro secolo, orfani della questione morale, imprenditori di quarta generazione, patiti di start up, millennials, blogger. Tanti hanno scorto la novità capace di sradicare appartenenze da proiettare in uno spazio tutto da arredare.
L’89 AVEVA ARCHIVIATO l’anomalia a sinistra col più grande partito comunista in Occidente. I l t r i e n n i o 1992-94 ha sancitola fine del sistema costruito su due baluardi: una democrazia impedita e la spesa pubblica come diga di consenso. C’erano le premesse di una unità dei progressisti da contrapporre alla coesione di moderati e destra. Un bipolarismo, magari immaturo, ma per i tempi l’alba del nuovo giorno.
L’Ulivo aprì la strada all’atto fondativo di un partito – il Pd – originale in ogni senso. Una forza inedita perché impossibile nel mondo precedente la caduta del Muro di Berlino e la fine del modello di crescita perseguito dall’Italia nei cinquant’anni dopo la guerra. Queste furono le premesse. Alte. Persino esagerate. Comunque in conflitto con la materia disponibile. Intendo le culture riversate nell’impresa e il metodo scelto per predisporla. Come avviare la costruzione di un pa-
GIANNI CUPERLO
lazzo e all’apertura del cantiere trovarsi in dotazione solo sabbia. “Pensammo una torre, scavammo nella polvere” è il verso scolpito da Ingrao per figurare il comunismo, “grande ambizione e grande fallimento”. Parafrasandolo nel partito del secolo dovremmo dire “Pensammo una torre. E non pensammo più”. Doppiamente colpevoli dinanzi a un mondo in procinto di capovolgersi sotto i nostri occhi.
All’atto fondativo ricordo personalità spiegare senza titubanze la vera rottura. A nascere non era solo una forza post-ideologica, e fin qui al più si poteva eccepire. No, il cambio di scenario era dare vita a un partito post-identitario. Nella traduzione equivale a dire “senza identità”. Ecco, tra mille peripezie, almeno quel traguardo è stato raggiunto. La verità? Temo sia nella diagnosi di Massimo Cacciari: “C’è oggi chi ciancia di un’identità da ritrovare. Ma quale identità può ritrovare chi mai l’ha avuta?”.
Nelle intenzioni, ma solo in quelle, il Pd è stata la forza pensata per catturare passioni e generosità di un popolo sparso e in parte sperso perché orfano di ancore ideali tese a riscattarlo. Questo voleva significare “un partito pensato per la gente”. E la reazione all’inizio fu conferma di una comunità in attesa, ben disposta e tutto sommato fiera, dopo tanto peregrinare, di trovare la casa del sogno. O dell’umana e ragionevole utopia. La nuova casa per una sinistra “di lotta e di governo”.
Il libro
E INVECE? Invece il disegno più ambizioso del secolo ha presto fatto spazio alle ambizioni di un ceto politico inadatto a ritrarre lo sforzo. Non solo per modestia soggettiva. Di quella ciascuno sopporta il peso e prova a conviverci. Tanto meno a ragione di una moralità difettosa. Anche