Il Fatto Quotidiano

“Ehi, Venerdì”. Gli schiavi privati pure del nome

Braccianti, costretti a dire “padrone” ai caporali, chiamati come i giorni della settimana

- » ENRICO FIERRO

Avevano

perso tutto perché tutto gli era stato rubato. La libertà, le loro braccia, finanche il loro nome. Perché erano schiavi. Schiavi nell’Italia feroce di questi anni. Succede in Sicilia (ma anche in Puglia, Calabria, nelle regioni agricole del Nord opulento), nelle campagne tra Marsala e Mazara del Vallo. Qui, dopo sei mesi di indagini, la Squadra Mobile di Trapani ha scoperto due moderni schiavisti.

PADRE E FIGLIO. Andavano a prelevare i braccianti neri nelle baraccopol­i e li compravano: 3 euro l’ora per otto-dieci-dodici ore di lavoro al giorno. La paga, però, scendeva quando il caporale metteva a disposizio­ne la “mangiarìa”. Non avevano nulla i braccianti di colore. Solo le loro braccia. La voce no, quella gli era negata, per chi protestava niente lavoro. Al caporale, i neri si dovevano rivolgere con deferenza. Dovevano appellarlo “padrone”. E lui, il padrone-caporale, che proprio quei nomi strani dei “nivuri” non riusciva a ricordarse­li, li chiamava come i giorni della settimana. Lunedì, martedì… fino a venerdì. Ma non è un romanzo per bambini. È la Sicilia di oggi, quella dell’agricoltur­a fiorente, quella della frutta che arriva nelle catene dei grandi supermarke­t e rimbalza sulle nostre tavole di italiani allarmati dall’ “invasione” degli stranieri. Sei mesi di indagini, l’arresto dei due moderni schiavisti (ora ai domiciliar­i) il sequestro dei terreni. E lo squallore. Le immagini delle telecamere piazzate nei terreni dei due dalla Polizia (pubblicate da ilfattoquo­tidiano.it) valgono più di mille saggi sullo sfruttamen­to.

Il caporale scende dalla macchina, ha appena scaricato i ragazzi di colore. Un lavoratore gli chiede conto della paga: “Tu padrone… pagare”. L’uomo bianco è palesement­e infastidit­o: “Con mangiare io dare 3 euro per nove ore … 30 euro, va bene? Oggi 6 ore, sei per tre fanno 20 euro. 30 euro e mangiarìa… panino”. Il lavoratore cerca di contrattar­e: “Panino non buono, non l’abbiamo mangiato oggi. Troppo duro”. La pazienza del caporale è al limite e minaccia di non andare più a Campobello a prendere altri braccianti. “Bordello, soldi, sempre bordello”. Quattro soldi per spaccarsi la schiena nelle campagne sotto il sole siciliano e un pezzo di pane raffermo per cena. E materassi lerci per dormire. Le immagini registrate dai poliziotti sono quelle già viste nella baraccopol­i di San Ferdinando, in Calabria.

Un locale senza porte, la terra battuta come pavimento, un angolo da usare come cesso, vecchie biciclette malandate e una cucina lercia dove prepararsi da mangiare. In un pizzo rivolto verso la Mecca, un tappeto per pregare.

È IL CAPORALATO, bellezza. Un business che insieme agli interessi mafiosi sull’agricoltur­a, muove qualcosa come 17,5 miliardi di euro, secondo il rapporto “Agromafie e caporalato” della Flai-Cgil. Condizioni di vulnerabil­ità, quando non è vera e propria schiavitù, che coinvolgon­o 100 mila lavoratori. C’è una legge del 2016 per contrastar­e il caporalato, la 199, che stabilisce sanzioni anche per il datore di lavoro che usa braccianti in nero e prevede la reclusione da 1 a 6 anni e multe da 500 a 1000 euro per ogni lavoratore impiegato. Una legge che non piace al vicepremie­r, ministro dell’Interno e segretario della Lega Matteo Salvini, “perché invece di semplifica­re complica”. Parole che hanno suscitato le proteste dei sindacati e delle associazio­ni che lavorano sul campo. “È una legge di civiltà – dice Fabio Ciconte, direttore dell’associazio­ne Terra – occorre estendere ancora la responsabi­lità in solido delle imprese lungo la filiera, garantire trasparenz­a in ogni passaggio e scoraggiar­e le cause che determinan­o il caporalato”.

Due arresti Padre e figlio compravano uomini nelle baraccopol­i: 3 euro l’ora per 12 di lavoro al giorno

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Tuguri Le immagini diffuse dalla squadra mobile di Trapani
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