Nell’inferno dei “centri” del Niger, limbo depredato
L’Occidente (non) li aiuta a casa loro
Omar prepara il tè versando dall’alto la prelibata bevanda da un bicchiere al birrade, il tipico pentolino tuareg, con estrema abilità, senza versarne una goccia. Da queste parti è un rito ripetuto più volte ogni giorno. Otto uomini, seduti in circolo all’esterno di un’abitazione di fango all’imbrunire di una giornata di sole cocente, discutono sulla situazione del nord-est del Niger, tra transito di migranti, la rabbia per un isolamento indotto, una strada che assomiglia ad un calvario e le risorse del ricco sottosuolo di cui non restano tracce di profitto. Il tè, servito in piccoli bicchieri decorati, emana un buon aroma e Omar ne narra il senso attraverso le fasi dell’esistenza: “Forte per la vita, dolce come l’amore e soave per accompagnarci verso la morte”.
SECONDO i parametri internazionali, il Niger occupa stabilmente le ultime posizioni nelle classifiche di povertà, mortalità infantile, crescita e così via. Eppure rappresenta un Paese-chiave nell’Africa sub sahariana, fulcro delle rotte migratorie verso il Mediterraneo. L’Italia lo ha capito tardi e adesso paga le sue incertezze strategiche e il cambio di esecutivo, sebbene gli errori del passato siano evidenti. La missione militare in Niger, nascosta prima e confermata alla fine dello scorso anno, è congelata. I 500 uomini da indirizzare proprio tra Niamey e la provincia di Agadez non sono mai atterrati nel Sahel, a parte un mini- contingente, quaranta uomini in tutto, bloccati in un’area della base americana nell’aeroporto della capitale. Se l’Italia tentenna, altri operano a pieno regime, specie sul delicato tema dei viaggi della speranza. L’Onu e le altre organizzazioni umanitarie ne sono consapevoli e nel cuore del deserto, qui ad Agadez, hanno realizzato centri di transito per profughi da e per la Libia. Ad occuparsene è una delle sue agenzie, l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, anche attraverso mirati piani di rimpatrio assistito.
A TRIPOLI e in Libia, dove si stima ci sia un bacino di almeno mezzo milione di uomini, donne e minori pronti a salire sui barconi, vengono organizzati voli periodici per riportare le persone nei rispettivi Paesi d’origine: Nigeria, Costa d’Avorio, Senegal ecc. Chi aderisce viene riportato a casa gratis, ma dice addio alla speranza di arrivare in Europa. Ad Agadez ci finisce chi non è riuscito ad arrivare in Libia, chi è stato fermato prima, lungo le rotte mortali del deserto. Centri di transito, compound aperti, dove sbrigare le pratiche documentali prima di salire a bordo degli autobus delle linee nigerine, convenzionati con l’Oi m, pronti a partire verso le rispettive destinazioni. Su una lavagna all’interno dell’ufficio del centro principale c’è la lista, paese per paese, con le rispettive presenze. Lista in continuo aggiornamento. I giovani, “costretti” ad attendere il loro destino, passano le giornate seguendo il ritmo sonnacchioso del clima desertico, tra i riposi nelle ore calde e le partite di calcio il pomeriggio.
LE STRATEGIE della Francia e dell’Italia per bloccare i loro tentativi di imbarcarsi verso l’Europa hanno prodotto sol- tanto un blocco temporaneo delle rotte migratorie attraverso il deserto del Niger. I viaggi dei migranti non si sono mai fermati del tutto. L’Oim da tempo si occupa di loro. Il caso più particolare è quello di un gruppo di sudanesi, fermi in uno dei centri di Aga dezdam esi. La loro“detenzione” è causata dalla mancanza di accordi col Pae- se d’origine. Non potendo rientrare e non avendo risorse per muoversi in autonomia, lì dentro attendono tempi migliori.
LE CONDIZIONI di vita sono precarie, stivati dentro un’area dismessa, un capannone centrale e l’esterno esposto ai raggi roventi del sole. Unica protezione, l’ombra garantita dall’enorme chioma di un albero sotto la quale cercano refrigerio. Se i migranti piangono, i nigerini di Agadez, Arlit e dei villaggi tuareg non ridono. Un terzo dei francesi sfrutta l’energia nucleare che arriva dalle riserve nigerine
di uranio di Arlit, eppure qui l’elettricità funziona a singhiozzo: “Mettetevi nei nostri panni, siamo depredati dalle compagnie straniere per l’estrazione di uranio, oro e coltan, a cui lo Stato concede tutto”. Mohtar Alassan, tuareg originario di Tchirozerine, ha lavorato come guida turistica e oggi fa il traduttore per compagnie e rappresentanze militari che pullulano nei dintorni di Agadez. Parla correttamente tre lingue e ha un forte senso di appartenenza: “Mio padre ha lavorato nella miniera di uranio di Arlit dagli anni ’70, quando l’azienda si chiamava C.a., Com- pagnia Atomica, poi Cogema e infine Areva. Ricordo la polvere gialla che lo accompagnava a casa, di un giallo così forte che quasi accecava. La polvere della morte che poi lo ha ucciso. Siamo poveri, non ci sono strade, non c’è futuro”. L’alternativa è partire e tentare la fortuna in Europa? “No, i tuareg non scappano. È una questione di dignità”.
L’ULTIMA BEGA per le i tuareg è la Rta, Route Tahoua-Arlit, l’unica via carrozzabile che mantiene il collegamento tra la provincia di Agadez e il resto del paese. Tracciata settant’anni fa dai francesi, oggi non restano che sparuti pezzi di asfalto. Il resto sono voragini, frane e piste di sabbia. La Rta è solo un troncone della grande Strada del Deserto che dovrebbe collegare Algeri alle sponde nigeriane del Pacifico. Un libro dei sogni insomma, di cui esistono progetti, presunti finanziamenti e proclami. Di fatto, la Desert
Road non vedrà mai la luce. Diverso il discorso della Rta, il cui avvio dei lavori è stato più volte annunciato dal governo del presidente Issifou. I cantieri sono ancora al palo, la strada continua a restare un vero e proprio calvario e gli abitanti sono sul piede di guerra: “Siamo pronti alla mobilitazione, ne abbiamo abbastanza. Senza strada siamo isolati, inoltre si verificano continui incidenti, a volte mortali. Presto bloccheremo la strada, sarà una protesta clamorosa”, promette Boutali Ad Tchiwerin, una delle anime del dissenso.