Il male assoluto delle note audio di Whatsapp: ridateci il telefono
Oggi siamo disposti a delegare tutto, persino il confronto con l’altra persona. Come magnati della finanza dettiamo a una dattilografa virtuale
Sino a poco tempo fa, non appena l’ultimo cellulare veniva lanciato sul mercato, c’era sempre qualcuno che credeva fosse divertentissimo affermare: “Fa anche le telefonate?”. E giù a ridere. Ma oggi non accade più. Ormai quasi nessuno telefona – c’avete fatto caso? – e il mondo si divide in tre categorie: quelli che scrivono sms, quelli che visualizzano e non rispondono e chi detta note audio, cioè gli zombie digitali. Sono facili da riconoscere: il telefono stretto nel palmo, portato alla bocca come fosse un vassoio di Viennetta e i passi sono veloci. Poi, fatalmente, il ruolo si ribalta, incolliamo gli occhi al display, fremiamo in attesa che su Whatsapp appaia il primo baffo grigio e poi il secondo – consegna avvenuta! – prima che si colori magicamente d’azzurro, segnalandoci che è stato anche ascoltato (sempre che l’altro non ci privi della gioia, deselezionando l’o pzione di notifica). E la trafila riparte, l’altro detta – “X sta scrivendo”– il circo si rimette in moto e noi attacchiamo lo smartphone al padiglione come i telefoni d’antan dei film in bianco e nero. Avanti così, un centinaio – forse di più – di volte ogni giorno. Ma perché non telefoniamo più? Ricordate Massimo Lopez che scanzava il plotone d’esecuzione con la cornetta in mano e lo slogan “una telefonata allunga la vita”? Ricordate le code alle cabine della Sip per chiamare la persona amata, con i gettoni in tasca che tintinnano? Invece oggi siamo disposti a delegare tutto, persino il confronto con l’altra persona, preferiamo dettare al telefono in totale libertà come magnati della finanza a una dattilografa virtuale, evitando il batti e ribatti a voce. Finché, frustrati dalle correzioni farlocche dello smartphone, si assiste a una reazione equivoca, scomposta.
EPPURE, non mi ero reso conto di questa sorta di mutazione dei costumi fin quando, pochi giorni fa, stremato dall’ennesima nota audio, ho telefonato a una collega in trasferta. Al sesto squillo, mi ha risposto con un tono esitante; soltanto la sera, mi ha detto con candore: “Sai, non rispondo più al telefono”. Al mio stupore, ha replicato: “Scrivo o detto note ma non telefono più a nessuno tranne che mio marito. Mi sembra un atto troppo privato, in tim o”. Eccoci dunque al cuore del problema. Rispondere al telefono è un gesto che si sta estinguendo, come il galateo a tavola o continuare ad aprire la portiera anche dopo la prima uscita; sarà che siamo ossessionati dalle chiamate dei call center. Parlandone con Lisa, un’amica inglese, mi ha ricordato che anni fa la scrittrice Jennifer Egan aveva già colto questo fenomeno ne Il tempo è un bastardo. Nelle ultime pagine del libro, il padre finalmente ricongiunto con la figlia ormai incapace di sostenere una conversazione, era costretto a dialogare via sms con lei, seduto allo stesso tavolo della cucina. Anni fa sembrava un’assurdità, oggi è invece è una fotografia della nostra tetra realtà. Così, prendendo spunto da questo trend – come direbbero i milanesi zona CityLife – stanco di rispondere alle sue insistenti telefonate a tutte le ore, ho proposto a mia madre di smettere di chiamarmi e iniziare a mandarmi note audio. Me ne sono già pentito.