Il Fatto Quotidiano

Il male assoluto delle note audio di Whatsapp: ridateci il telefono

Oggi siamo disposti a delegare tutto, persino il confronto con l’altra persona. Come magnati della finanza dettiamo a una dattilogra­fa virtuale

- » FRANCESCO MUSOLINO

Sino a poco tempo fa, non appena l’ultimo cellulare veniva lanciato sul mercato, c’era sempre qualcuno che credeva fosse divertenti­ssimo affermare: “Fa anche le telefonate?”. E giù a ridere. Ma oggi non accade più. Ormai quasi nessuno telefona – c’avete fatto caso? – e il mondo si divide in tre categorie: quelli che scrivono sms, quelli che visualizza­no e non rispondono e chi detta note audio, cioè gli zombie digitali. Sono facili da riconoscer­e: il telefono stretto nel palmo, portato alla bocca come fosse un vassoio di Viennetta e i passi sono veloci. Poi, fatalmente, il ruolo si ribalta, incolliamo gli occhi al display, fremiamo in attesa che su Whatsapp appaia il primo baffo grigio e poi il secondo – consegna avvenuta! – prima che si colori magicament­e d’azzurro, segnalando­ci che è stato anche ascoltato (sempre che l’altro non ci privi della gioia, deselezion­ando l’o pzione di notifica). E la trafila riparte, l’altro detta – “X sta scrivendo”– il circo si rimette in moto e noi attacchiam­o lo smartphone al padiglione come i telefoni d’antan dei film in bianco e nero. Avanti così, un centinaio – forse di più – di volte ogni giorno. Ma perché non telefoniam­o più? Ricordate Massimo Lopez che scanzava il plotone d’esecuzione con la cornetta in mano e lo slogan “una telefonata allunga la vita”? Ricordate le code alle cabine della Sip per chiamare la persona amata, con i gettoni in tasca che tintinnano? Invece oggi siamo disposti a delegare tutto, persino il confronto con l’altra persona, preferiamo dettare al telefono in totale libertà come magnati della finanza a una dattilogra­fa virtuale, evitando il batti e ribatti a voce. Finché, frustrati dalle correzioni farlocche dello smartphone, si assiste a una reazione equivoca, scomposta.

EPPURE, non mi ero reso conto di questa sorta di mutazione dei costumi fin quando, pochi giorni fa, stremato dall’ennesima nota audio, ho telefonato a una collega in trasferta. Al sesto squillo, mi ha risposto con un tono esitante; soltanto la sera, mi ha detto con candore: “Sai, non rispondo più al telefono”. Al mio stupore, ha replicato: “Scrivo o detto note ma non telefono più a nessuno tranne che mio marito. Mi sembra un atto troppo privato, in tim o”. Eccoci dunque al cuore del problema. Rispondere al telefono è un gesto che si sta estinguend­o, come il galateo a tavola o continuare ad aprire la portiera anche dopo la prima uscita; sarà che siamo ossessiona­ti dalle chiamate dei call center. Parlandone con Lisa, un’amica inglese, mi ha ricordato che anni fa la scrittrice Jennifer Egan aveva già colto questo fenomeno ne Il tempo è un bastardo. Nelle ultime pagine del libro, il padre finalmente ricongiunt­o con la figlia ormai incapace di sostenere una conversazi­one, era costretto a dialogare via sms con lei, seduto allo stesso tavolo della cucina. Anni fa sembrava un’assurdità, oggi è invece è una fotografia della nostra tetra realtà. Così, prendendo spunto da questo trend – come direbbero i milanesi zona CityLife – stanco di rispondere alle sue insistenti telefonate a tutte le ore, ho proposto a mia madre di smettere di chiamarmi e iniziare a mandarmi note audio. Me ne sono già pentito.

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