Il Fatto Quotidiano

Ma siamo tutti schedati

Il censimento quotidiano

- » PIERGIORGI­O ODIFREDDI

“In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra”. Così si legge all’inizio di uno dei Vangeli, gli stessi che Matteo Salvini ha sventolato durante un comizio nella scorsa campagna elettorale. Speriamo che l’idea di censire i rom non gli sia venuta da lì, altrimenti non si tratterebb­e che di un primo passo per arrivare a censire tutta la terra, appunto. Per ora il neo ministro degli Interni si limita a voler sapere “da dove vengono, chi sono e dove devono andare” i rom.

Solzenicyn rimase sconvolto dalla scoperta che negli Usa c’era molta più vigilanza sui singoli che sotto Stalin La polemica sull’ipotesi di schedare i rom trascura che tutti noi siamo monitorati in ogni istante

“In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra”. Così si legge all’inizio di uno dei Vangeli, gli stessi che Matteo Salvini ha sventolato durante un comizio nella scorsa campagna elettorale. Speriamo che l’idea di censire i rom non gli sia venuta da lì, altrimenti non si tratterebb­e che di un primo passo per arrivare a censire tutta la terra, appunto. Per ora il neo ministro degli Interni si limita a voler sapere “da dove vengono, chi sono e dove devono andare” i rom. In questo caso la sua ispirazion­e potrebbe essere un quadro di Gauguin, il cui titolo era Da dove veniamo? Chi

siamo? Dove andiamo?. Il pittore si poneva queste domande non solo in senso metafisico, ma anche personale: quando lo dipinse viveva infatti a Tahiti, nella doppia (e tragica) condizione di emigrato dalla Francia e immigrato in Polinesia.

A dire il vero, chi sono i rom lo dice la parola stessa, che deriva da r o ma n í , la lingua che parlano: cioè, non sono una razza definita biologicam­ente, ma un’etnia definita linguistic­amente, in base al loro comune idioma. Questo farebbero bene a ricordarlo anche coloro che, per contrastar­e propriamen­te le mire di Salvini, evocano impropriam­ente le “leggi razziali”, finendo col fare di ogni erba un letterale “fascio”.

Da dove vengono poi i rom, lo determinan­o i luoghi in cui si parla la loro lingua: luoghi che sono in buona parte situati in Romania e dintorni. I rom sono dunque di origine europea, e quattro quinti di essi (circa 10 milioni su 12,5) stanno in Paesi europei. Domandare dove devono andare i rom, come fa Salvini, è come domandare dove devono andare gli europei: non ha senso, almeno fino a quando esiste un’Unione europea.

Le polemiche sollevate dalla proposta del ministro hanno suscitato scalpore perché hanno a che fare con i censimenti, le schedature, i dossier e altre pratiche sgradevoli, che ricordano i regimi totalitari dei tempi passati e le loro polizie segrete, dall’Ovra al Kgb. Tutte cose incompatib­ili con il culto della riservatez­za nei tempi moderni, che non solo professiam­o, ma di cui pratichiam­o quotidiana­mente i riti con le innumerevo­li “firme per la privacy” che dobbiamo apporre nelle occasioni più svariate, e quasi sempre inutili.

Quanto potessero essere pervertite le pratiche di quei regimi lo racconta Solenicyn nel romanzo Il primo cerchio, il cui titolo ha un’ispirazion­e dantesca. Sta infatti a indicare il limbo nel quale il futuro scrittore era caduto, per aver fatto una battuta su Stalin: era pur sempre il Gulag, che divenne l’argomento della sua opera più famosa, ma almeno si trattava del primo cerchio della versione sovietica dell’Inferno. Questo “trattament­o di favore” gli era stato riservato perché Solenicyn era un fisico-matematico, e venne dunque destinato al girone in cui si faceva ricerca scientific­a. E lui racconta a che livelli di paranoia fosse giunto Stalin, al quale non bastavano i polverosi faldoni di informativ­e della polizia segreta: voleva avere un meccanismo che fotografas­se le persone che passavano dalle porte del Cremlino, e un sistema che rilevasse l’impronta vocale delle telefonate che si facevano o si ricevevano!

Quando Solenicyn andò in esilio negli Stati Uniti, rimase inorridito: il sistema di controllo degli individui nella società americana era di vari ordini di grandezza più capillare di quello dell’Unione Sovietica. E non stupisce che egli, dopo aver criticato al proposito gli Stati Uniti nel discorso per la consegna delle lauree a Harvard nel 1978, non sia più stato invitato in pubblico e si sia ritrovato isolato e dissidente come prima.

Chissà cosa direbbe oggi, 40 anni dopo, vedendo che i pervertiti meccanismi di controllo ai quali aveva lavorato nel Gulag per compiacere la paranoia di Stalin sono stati adottati non solo alla Casa Bianca, ma in qualunque luogo pubblico o privato, dagli aeroporti alle banche. E non è soltanto la nostra immagine che viene registrata dovunque andiamo: anche le nostre conversazi­oni telefonich­e e le nostre mail sono monitorate e classifica­te, dagli Stati e dalle aziende. Me lo confermò nel 2002 l’ex presidente Francesco Cossiga, un patito dei servizi segreti e dello spionaggio, quando mi disse in un’intervista: “Echelon c’è da sempre: fu fatta nascere insieme alla Nato, dopo la Seconda guerra mondiale. L’hanno costituita i servizi di sicurezza del Regno Unito, degli Stati Uniti, del Canada e dell’Australia, con agenzie fatte di matematici, fisici, linguisti. Non l’hanno aperta ad altri, ma posso dire per esperienza personale che forniscono informazio­ni anche a noi, ad esempio per quanto riguarda la lotta alla droga e alla mafia”.

Quando gli domandai cosa registrass­ero, la sua risposta fu: “Ormai tutto ciò che c’è nell’aria! Quello che va per cavo o per fibra ottica deve invece ancora essere intercetta­to attraverso i servizi, mediante un’intrusione materiale. Ma il vero problema è come utilizzare l’enorme quantità di informazio­ne che si accumula”. La conferma ci viene quando il giorno dopo un attentato possiamo seguire in video le mosse degli attentator­i e leggere i loro scambi, anche se spesso ormai è troppo tardi.

La fantomatic­a privacy è oggi soltanto una chimera, di cui continuiam­o a parlare perché, di essa, non ci rimane appunto altro che la parola. Viviamo tutti in un Grande Fratello globale e universale, una specie di commistion­e fra il 1984di George Orwell e il Truman Showispira­to a un romanzo di Philip Dick. Siamo sempre e tutti osservati e catalogati, spesso senza che ce ne accorgiamo. Ogni volta che usiamo il bancomat, una carta di credito, il cellulare, un computer, la posta elettronic­a, un social network, un casello autostrada­le, un aeroporto, un albergo, i dati registrati e classifica­ti confluisco­no in un profilo che finisce ben presto di contenere molte più informazio­ni su di noi di quante ne conosciamo o ricordiamo noi stessi. Le impronte digitali, la cui evocazione da parte di Salvini ha fatto inorridire i benpensant­i, sono regolarmen­te contenute nei chip dei passaporti elettronic­i, e in un futuro più o meno prossimo saranno sostituite dalle ben più sofisticat­e impronte genetiche.

Le informazio­ni su di noi sono ormai innumerevo­li. E il dibattito sollevato da Salvini rischia di non essere altro che una distrazion­e dello sguardo dal vero problema: che non è tanto, o soltanto, se i rom debbano essere apertament­e e ufficialme­nte censiti, ma se dobbiamo esserlo nascostame­nte e subdolamen­te tutti noi. E poiché lo siamo comunque, volenti o nolenti, il problema è anche quale uso si debba fare di queste informazio­ni censorie.

Giulio Andreotti diceva che l’unico modo di mantenere un segreto è non confidarlo neppure a se stessi. Oggi neppure questo basta più, e spesso i nostri segreti sono conosciuti dagli altri, anche quando rimangono nascosti a noi. Dovremmo preoccupar­cene molto, ed evitare il più possibile di collaborar­e: parafrasan­do il noto avviso di Miranda, “abbiamo il diritto di rimanere in silenzio, perché ogni cosa che diciamo o facciamo potrà essere usata contro di noi”.

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Domande“Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” di Paul Gauguin (1897)

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