Il Fatto Quotidiano

Gigi, 50 estati sul palco

“Cavalli di battaglia” a Roma è sempre sold out. E a Verona porta il “Kean”

- » ALESSANDRO FERRUCCI

“Buongiorno”. A lei, signor Proietti, ma sono le 13. “Mi sono svegliato da poco: da sempre vado a letto tardi”. E subito una sigaretta. “Cinque minuti fa (silenzio, pausa scenica. Poi il classico...) Voglio smettere. Magari ne lascio una prima di andare in scena”. In scena come questa sera, per l’ennesimo sold out a Roma: 3.700 persone per rivedere Toto e la saùna ( a cc en to sulla “u”), Pietro Ammicca, il baule di A me gli occhi please, il ricordo di Magni e Trovajoli, e per tre ore di show. “Ancora mi stupisco”. Bello stupirsi.

“Buo ng io rn o”. A lei, signor Proietti, ma sono le 13. “Mi sono svegliato da poco: da sempre vado a letto tardi”. E subito una sigaretta. “C i nq u e minuti fa (silenzio, pausa sce

nica. Poi il classico...) Voglio smettere. Magari ne lascio una prima di andare in scena”. In scena come questa sera, per l’ennesimo sold out a Roma: 3.700 persone per rivedere Toto e la saùna (accento sulla “u”), Pietro Ammicca, il baule di A me gli occhi please, il ricordo di Magni e Trovajoli, e per tre ore di show. “Ancora mi stupisco”. Bello stupirsi. “Non bello, fondamenta­le”. E a luglio, per tre sere, sarà a Verona per il 70° Festival shakespear­iano, con l’E dm un d Kean, uno dei testi più belli, intensi e complicati, dedicati a uno dei maggiori attori inglesi dei primi dell’800. A Roma è oltre le 90mila presenze e 30 repliche.

Ci rendiamo conto?

Il pubblico ride prima delle battute...

Perché non ho mai puntato a un teatro di intratteni­mento basato sull’attualità, quasi mai satira politica, qualcosa di costume, e forse questo ha reso alcune maschere così longeve; i miei sono spettacoli che una volta venivano definiti di ‘contaminaz­ione’. “Toto” ha il coro...

Guai se non lo porto in scena. È quello che capita ai cantanti in tournéeper il nuovo disco: il pubblico va, ma alla fine vuole il cavallo di battaglia. Sul palco anche le figlie...

Cantano tutte e due, poi in particolar­e una recita e l’altra è costumista; e non ho mai insistito per vederle impegnate in un mestiere come il mio. Per rispetto o per evitare una carriera faticosa? Tutti e due, poi sono donne e il repertorio tradiziona­le e drammaturg­ico è quasi tutto maschile, quindi è ancor più difficile emergere; inoltre un cognome importante può rallentare, tutti i figli d’arte lo soffrono, non per il pubblico, è l’ambiente a mormorare. Dito puntato.

Anni fa ho preso un ristorante con l’idea di tenerlo aperto per il dopo teatro, in modo da accogliere i colleghi. Non ne ho mai visto uno. Un giorno un attore più onesto degli altri mi dice: ‘ Te pare che annamo a dà i soldi proprio a te!’

Quando le chiedono da chi “discende” spesso utilizza una risposta di Petrolini. Sì, ‘dalle scale di casa mia...’. Non amo le fratture con la tradizione, amo continuare, non è possibile smettere e riprendere con modalità diverse. Ha spiegato: “Una battuta che normalment­e fa ridere, a un certo punto, per ragioni imperscrut­abili, non fa più scattare la risata”. È successo a tutti e non bisogna farci

caso, meglio proseguire, se uno è paziente la reazione positiva torna. Dipende da noi. Sempre da “noi”...

Difficile individuar­e l’errore, e un tempo ero affetto da maniacalit­à, oggi meno... comunque non ci dormivo, pensavo e ripensavo. Si arrovellav­a.

L’esperienza è fondamenta­le. Anni fa porto in scena a Roma

Gaetanacci­o di Magni, e ogni tanto organizzav­amo una serata per gli ospiti degli ospizi: ridevano in zone diverse dal pubblico degli altri giorni. Altra generazion­e...

Magari nel mezzo dello spettacolo sentivamo le badanti che consegnava­no il cappuccino, la sirena accesa dell’ambulanza, o qualcuno che urlava: ‘ S uoraaaa!’. Noi sul palco ridevamo, e il massimo dell’ovazione arrivava quando Gaetanacci­o prendeva a tortorate il burattino della morte. A luglio è a Verona con il “Kean”. Il testo nasce per il laboratori­o teatrale: se vuoi recitarlo come si deve, è necessario dare fondo a tutte le possibilit­à offerte dallo scritto, è

una sorta di esposizion­e di stili e di momenti, di pause e accelerazi­oni; di dialogo normale, inframmezz­ato da passaggi shakespear­iani. Scritto da Fitzsimons...

L’ho visto la prima volta a Londra negli anni 80 recitato da Ben Kinglsey. Mi siedo in platea, via il sipario, lui al centro in camicia bianca, pantaloni neri e davanti un baule. Come “A me gli occhi please”...

Eh sì; comunque ho voluto rappresent­arlo come una malattia, una nevrosi tipica di tutti coloro che hanno l’ambizione di arrivare, fino alle estreme conseguenz­e. Uno spettacolo complicato anche sul piano fisico.

Seduto darebbe un effetto meno importante, per questo evito tournée lunghe, non è possibile. Si sta ancora antipatico?

Come dicevo, sono stato maniacale nella tecnica, mentre con gli anni ho scoperto che la tecnica serve, ma come base per la costruzion­e dell’opera. Poi bisogna dimenticar­la. A proposito di cavalli, su Sky

Febbre da cavallo continua a colpire per gli ascolti.

Quando è uscito il successo fu molto limitato, i produttori recuperaro­no giusto i soldi; poi dopo 15 anni le tv locali iniziarono a trasmetter­lo, e piano piano si è guadagnato le

prime serate. Steno regista e i figli Carlo ed Enrico nella troupe.

Come diceva Sergio Citti, ‘io non ho fatto del cinema, ma dei film’, tra i quali delle pellicole di intratteni­mento insieme a Carlo ed Enrico, con i quali sono stato bene. Carlo poi è bravissimo, sa girare e conosce il gusto dell’ironia, esattament­e come il padre. Un padre-maestro...

Un intellettu­ale vero, aveva capito che se uno dirige Totò, non gli può dire cosa fare, basta una traccia e poi devi lasciare andare. Esattament­e come con Aldo Fabrizi, mentre spesso i registi ci tengono a mostrare presunte capacità. Fabrizi in platea, per lei.

Agli applausi finali salì sul palco, e per mezz’ora intrattenn­e un pubblico estasiato. Mentre parlava mi asciugava pure il sudore. Flaiano diceva: “La situazione politica è grave ma non seria”. È un paradosso, lui sapeva bene che dire seria significa poco o niente. Normalment­e sono ottimista, ma che sia grave non v’è dubbio, ed è difficilis­simo ricostruir­si un pensiero e formulare un’opinione. Senza punti di riferiment­o.

I miei non ci sono più o sono diversi, hanno mutato identità, ma non amo il mugugno.

Ho messo in scena una malattia: la nevrosi di chi ha l’ambizione di arrivare fino alle estreme conseguenz­e

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