Senza ombra né speranza Duemila fantasmi a Tajoura
Tripoli Uomini, donne e bambini stipati nel centro di detenzione: 40 gradi, neanche una bava di vento. Non bastano Ong locali e Unhcr
Zakaryia ha meno di tre mesi e sguazza dentro una bacinella rossa riempita per metà. Sua sorella gli getta addosso dell’acqua da un secchiello e lui se la ride. Il peggio per lui deve arrivare. Lo ha capito pure sua madre, pronta a sostenerlo nel bagnetto mattutino: “Ci aiuti” chiede la donna, una giovane ragazza somala. “Siamo arrivate più di sei mesi fa, da qui dentro non usciremo mai”. Eppure il governo di Fayez al-Sarraj non ha cambiato di una virgola la lista dei Paesi con cui la Libia, anche ai tempi pre-rivoluzione, ha mantenuto valida la concessione di protezione internazionale per richiedenti asilo e la Somalia figura tra quelli. È quasi mezzogiorno e dentro il centro di detenzione di Tajoura si muore di caldo: sopra i 40°, neppure una bava di vento, l’afa irrespirabile. Manca una tettoia per proteggersi dal sole rovente.
BENVENUTI all’inferno. C’è fermento nel centro: “Stiamo pulendo gli stanzoni per renderli più accoglienti, cambiamo anche i materassi” spiega il responsabile di Tajoura, un solerte funzionario libico. Personale della Staco, una Ong libica, distribuisce assorbenti femminili: “Queste persone hanno bisogno di tutto, viste le condizioni estreme anche di curare l’igiene. Vorremmo fare di più e ci stiamo provando” dice il project manager Abduel Mutaleb Elmeabet. Ad acco- glierci decine di migranti a caccia di ombra, attaccati ai muri o rannicchiati sotto un container sollevato. Per rinfrescarsi solo una canna di gomma collegata al rubinetto.
Tajoura è uno degli otto centri gestiti dal governo libico tra Tripoli e dintorni, dove finiscono tra gli altri i migranti recuperati in mare dalla Guardia costiera. In tutto ci sono diecimila persone, ha fatto sapere domenica l’Unhcr. Troppe. Sono 2500 solo quelle riprese in mare tra il 21 e il 28 giugno. Per arrivare a Tajoura si percorre una trentina di chilometri, è un’oretta di traffico disordinato. Si passa sul lungomare est, davanti all’aero- porto Mitiga – un ex scalo prettamente militare – per addentrarsi fino a una zona sperduta. Attorno solo rovine e vegetazione secca pronta a farsi deserto. Arrivati al centro di detenzione, ci accolgono soldati in abiti civili con i fucili in mano. Tajoura è stata una delle strutture militari a disposizione del regime di Gheddafi. Un’enorme area fortificata a padiglioni. Quello principale trasformato nella prigione per migranti, in maggioranza sub sahariani. In mezzo alle oltre duemila persone stivate come bestie nel compound arroventato, ci sono pure i sedici superstiti della tragedia di martedì scorso: cento tra morti e dispersi, compresi i tre bambini le cui immagini hanno fatto il giro del mondo: “Ci hanno fatto partire di notte, verso le 3 – racconta Bakari, giovane maliano –. La barca non era sicura, poi sono arrivati gli scafisti, hanno staccato il motore e se lo sono portato via. Abbiamo iniziato a prendere acqua, la gente ha avuto paura e la barca è affondata. Non so come ho fatto a salvarmi”.
Bakari è un miracolato ed è entrato a Tajoura da meno di una settimana. Altri hanno passato storie analoghe e si ritrovano in un buco nero da mesi senza avere un’idea su cosa accadrà loro. I volti stanchi, imploranti aiuto. La maggior parte è rinchiusa nel centro da più di sei mesi e in pochi sono stati registrati. Al momento sono fantasmi, numeri imperfetti di una meccanismo diabolico. Di loro, forse, qualcuno si occuperà, ma a tempo debito. Le opzioni fanno rabbrividire: accettare il rimpatrio nei Paesi di origine oppure restare lì a tempo indeterminato.
DIFFICILE tentare la fuga, per chi ci ha provato non è finita bene. A Ousmane è andata pure peggio. Per stare in piedi si appoggia su una stampella dopo che gli hanno amputato la gamba destra sopra il ginocchio: “I banditi hanno attaccato me ed altri migranti nel deserto mentre stavamo salendo verso la costa. È successo quasi un anno fa. Scappavamo, hanno iniziato a sparare e una pallottola mi ha colpito alla gamba. Costretto a nascondermi, quando non ce la facevo più, mi hanno portato in ospedale. Stavo morendo. Una volta uscito, senza una gamba, sono stato rinchiuso qui a Tajoura. Per fortuna le guardie non ci trattano male, ma da mangiare fa schifo”. Mesi e mesi in uno spazio chiuso senza aver commesso crimini, solo la colpa di essere clandestini. Tutto il giorno a non fare nulla, a parte patire il caldo. I nervi saltano in fretta. Con tante comunità diverse le tensioni sono all’ordine del giorno. Prima di andarcene ci fermiamo a parlare con un ragazzino, ha 16 anni, si chiama Mohammed ed è arrivato a Tripoli dalla Sierra Leone: “I miei genitori sono morti a causa dell’ebola, così a dicembre io e mio fratello più piccolo siamo partiti. Durante il viaggio lui è morto e adesso sono rimasto solo”.