SE MAI ESISTESSE UNA SINISTRA, SI INFILEREBBE NEL DL DIGNITÀ
Il “decreto dignità” è un brodino che non curerà la polmonite cronica del mondo del lavoro italiano. Però è un brodino – somministrato tra mille pressioni per diluirlo ancora di più – che segue anni di martellate sugli alluci, quindi un passo avanti, un’inversione di tendenza. Non manca qualche simbologia: tra i primi provvedimenti del governo Renzi (“il più di sinistra degli ultimi trent’anni”, disse lo sventurato) ci fu il decreto Poletti, che era né più né meno uno schiaffone ai lavoratori precari.
TRA I PRIMI
provvedimenti del governo SalviMaio – t r ag i c amente a trazione leghista – c’è un attenuamento di quello schiaffone. Non c’è il ripristino dell’articolo 18, non c’è un vero superamento del Jobs Act scritto e diretto nelle stanze di Confindustria. Però qualche ricaduta sulla vita reale sì, perché se ti licenziano da un impiego fisso devono almeno darti più soldi, perché chi assume a tempo indeterminato potrà farlo solo in certi casi, per meno tempo, e spiegando perché, e sono solo piccoli esempi. Non piccolissimi, se pensiamo a una famiglia dove uno perde il lavoro: avere come risarcimento una decina di stipendi invece che quattro e cinque (massino 36
invece di 24) fa una certa differenza, a pranzo e a cena, per qualche mese.
Anche nella comunicazione c’è qualche novità. Abituati da anni al cantar vittoria dei perdenti sui dati Istat dell’occupazione (la mia collezione sui tweet del Pd che inneggiano alla disoccupazione che scende tacendo del precariato che aumenta è ben fornita), sentiamo
cantare i numeri che il poro Poletti cercava in tutti i modi di taroccare. Su 100 nuovi occupati, 1 ha un lavoro stabile, 4 si sono messi in proprio e 95 sono a termine. Insomma, non c’è niente da festeggiare o da sbandierare in quanto miracoloso, come facevano i rottamatori di se stessi.
A parte la piccola ma significativa inversione di tendenza (per cartina di tornasole si possono osservare le reazioni di Confindustria: come se gli avessero incendiato il garage), non resta che osservare l’orizzonte dove già si intuisce la presenza di un iceberg.
Il decreto dignità (mi permetto di suggerire nomi più sobri, ma questo è un dettaglio) va infatti decisamente in rotta di collisione con il pensiero salviniano, e questo sarebbe il minimo perché sappiamo quanto Salvini cambi pensiero come la biancheria (e forse più spesso, da “Padania is not Italy” a “Prima gli italiani”). Se si esce dai dettagli e si guarda ai blocchi sociali, invece il problema c’è: il primo provvedimento del governo è in controtendenza rispetto al pensiero dominante della destra che Salvini si è mangiata in un boccone. La manina del mercato, il liberismo che più che n’è e meglio è, la solita menata del “lacci e lacciuoli”, in-
somma la sempiterna litania padronale del “lasciateci fare il cazzo che vogliamo”. E non a caso le reazioni del mondo leghista sono gelide e anzi ostili, Salvini non è andato a una riunione sul provvedimento preferendo fare il pupazzo al Palio di Siena, la Meloni ha parlato di “ispirazione marxista” (come no, e gli alieni atterreranno giovedì) e gli industriali (e i loro giornali) hanno messo su il solito mugugno.
SE ESISTESSE
un’opposizione, cosa di cui c’è bisogno come del pane, tenterebbe di infilarsi in questa intercapedine che c’è tra le varie propagande ( alcune schifose, come quella anti-umanitaria di Salvini) e i fatti. Vedere che nelle nuove norme sul lavoro c’è una crepa, infilarsi in quella crepa, allargarla, rendere le contraddizioni evidenti e poi magari trasformarle in una vera divisione della maggioranza, una divisione di interessi, di blocchi sociali, di appartenenze: chi sta col lavoro, chi sta con il capitale. Tutto questo, appunto, se ci fosse un’opposizione e non mangiatori di pop- corn e twittatori compulsivi del “quando c’eravamo noi, caro lei”.
Il primo provvedimento del governo si scontra con il pensiero leghista: il Pd potrebbe rendere evidente questa contraddizione