Il Fatto Quotidiano

La rete di amicizie e trafficant­i: così gli africani si convincono a partire

- » ANDREA VALDAMBRIN­I

Il

viaggio può durare anni, costare cifre da capogiro, interrompe­rsi e riprenders­i come in un sadico gioco de ll ’ oca sulla pelle del migrante, prima dell’incerto approdo. Può portare nel peggiore dei casi alla morte, magari nel deserto o nella traversata del Mediterran­eo, nel migliore dei casi a sofferenze e torture nelle prigioni libiche. Eppure, tutto questo non ferma i migranti – che scappino da guerra, da povertà o da disastri climatici, la distinzion­e è a volte sottile.

Ma cosa sanno davvero i migranti dell’Europa che vedono come un miraggio prima di partire? E perché non cambiano idea durante il loro percorso, quando constatano le atroci difficoltà che devono affrontare? E ancora, esiste un sistema efficace di contro-informazio­ne da parte proprio dei Paesi che vogliono raggiunger­e, per evitare che si gettino nelle mani dei trafficant­i di uomini? E se non c’è, per quale motivo?

“Non ho pensato io di lasciare la Nigeria”, scandisce in inglese Joy, 21 anni, incinta di 3 mesi e da oltre un anno in Italia, che incontriam­o nel centro di accoglienz­a della Comuni- tà di Sant’Egidio a Roma. “Una signora mi è venuta cercare, promettend­omi che sarei andata a lavorare, facendo le pulizie. Così ha fatto con altre mie amiche”. Come molte altre sue connaziona­li, Joy è invece una vittima di tratta finalizzat­a alla prostituzi­one. Alla domanda sul perché abbia intrapreso il viaggio e se sapeva quanto sarebbe stato difficile, la risposta della ragazza è laconica: “La mia famiglia non aveva nulla”.

MOLTO SPESSO, come nel caso di Joy, è il sistema sociale che fa pressione sui singoli perché lascino il Paese, mentre la molla che li spinge a partire è il non avere niente da perdere. I trafficant­i nel Paese d’origine chiedono cifre che oscillano tra gli 8.000 e i 15.000 euro o più. Un vero capitale, che viene pagato in più tappe, a volte attraverso prestiti o fasi di lavoro nei Paesi che vengono attraversa­ti nella rotta verso la Libia, tanto che gli spostament­i durano anni.

“Il viaggio a tappe non è affidato a un solo trafficant­e”, spiega Simone Andreotti, presidente della cooperativ­a sociale “In Migrazione”: “Il trafficant­e del Paese d’origine è spesso in contatto con il suo omologo dello Stato confinante, che ricatta la famiglia del migrante. E così fino alla Libia, dove tra l’altro i migranti vengono consegnati alla polizia, prima di finire nelle mani di altri trafficant­i che proveranno a far loro passare il mare”. Un secondo elemento rilevante è che il percorso

Joy, nigeriana “Una donna mi ha detto che avrei potuto fare le pulizie. I pericoli? La mia famiglia non aveva nulla”

del migrante è concepito in modo da essere senza ritorno. “Hai pagato, ti sei indebitato. Il meccanismo è questo: puoi solo andare avanti o morire”.

Inoltre, l’attrattiva rappresent­ata dall’Europa e l’Occidente è ormai veicolata in modo diretto attraverso internet. Esiste una ben consolidat­a narrativa del migrante che ce l’ha fatta, e che invia selfie

agli amici – magari vicino a un monumento di una città europea, o a una macchina di lusso che finge sia la sua – postandoli sui social. Raccontare alle famiglie d’origine di aver subito un’odissea, porta con sé anche vergogna, quindi è meglio non farlo. Questo non significa, tuttavia, che non vi siano piani di informazio­ne, anche da parte delle organizzaz­ioni internazio­nali (Oim o Unhcr) sui rischi dei viaggi migratori.

FEDERICO BONADONNA,

antropolog­o, che ha vissuto e lavorato molti anni per diverse associazio­ni umanitarie tra Senegal ed Etiopia, illustra così la situazione: “Mentre in Eritrea o Sudan, non c’è conoscenza del mondo esterno e la fuga è quasi una necessità, le

Ong locali, soprattutt­o nei Paesi dell’Africa ex francese, indicano con precisione perfino spietata le contrariet­à del mettersi in viaggio”.

Ma come i rischi del fumo per la salute non portano la gente a smettere, allo stesso modo la scarsa e male organizzat­a contro- informazio­ne non riesce a bloccare le partenze. “Partire corrispond­e a un disegno razionale, al contrario di quanto pensiamo noi in Europa”, ragiona ancora Bonadonna. “Spesso è tutta la comunità locale che si indebita per sostenere i migranti e poi attende le rimesse, dall’Europa, di cui molte comunità subsaharia­ne basano la loro sopravvive­nza economica”. In altre parole: c’è un vero e proprio sistema, ben oliato – anche se sostanza criminale, perché gestito da trafficant­i di esseri umani – dietro il viaggio del migrante. Una trappola, sì, ma perfetta.

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Afp Riportati indietro Migranti sopravviss­uti a un naufragio su un gommone dei guardacost­e lbici

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