La rete di amicizie e trafficanti: così gli africani si convincono a partire
Il
viaggio può durare anni, costare cifre da capogiro, interrompersi e riprendersi come in un sadico gioco de ll ’ oca sulla pelle del migrante, prima dell’incerto approdo. Può portare nel peggiore dei casi alla morte, magari nel deserto o nella traversata del Mediterraneo, nel migliore dei casi a sofferenze e torture nelle prigioni libiche. Eppure, tutto questo non ferma i migranti – che scappino da guerra, da povertà o da disastri climatici, la distinzione è a volte sottile.
Ma cosa sanno davvero i migranti dell’Europa che vedono come un miraggio prima di partire? E perché non cambiano idea durante il loro percorso, quando constatano le atroci difficoltà che devono affrontare? E ancora, esiste un sistema efficace di contro-informazione da parte proprio dei Paesi che vogliono raggiungere, per evitare che si gettino nelle mani dei trafficanti di uomini? E se non c’è, per quale motivo?
“Non ho pensato io di lasciare la Nigeria”, scandisce in inglese Joy, 21 anni, incinta di 3 mesi e da oltre un anno in Italia, che incontriamo nel centro di accoglienza della Comuni- tà di Sant’Egidio a Roma. “Una signora mi è venuta cercare, promettendomi che sarei andata a lavorare, facendo le pulizie. Così ha fatto con altre mie amiche”. Come molte altre sue connazionali, Joy è invece una vittima di tratta finalizzata alla prostituzione. Alla domanda sul perché abbia intrapreso il viaggio e se sapeva quanto sarebbe stato difficile, la risposta della ragazza è laconica: “La mia famiglia non aveva nulla”.
MOLTO SPESSO, come nel caso di Joy, è il sistema sociale che fa pressione sui singoli perché lascino il Paese, mentre la molla che li spinge a partire è il non avere niente da perdere. I trafficanti nel Paese d’origine chiedono cifre che oscillano tra gli 8.000 e i 15.000 euro o più. Un vero capitale, che viene pagato in più tappe, a volte attraverso prestiti o fasi di lavoro nei Paesi che vengono attraversati nella rotta verso la Libia, tanto che gli spostamenti durano anni.
“Il viaggio a tappe non è affidato a un solo trafficante”, spiega Simone Andreotti, presidente della cooperativa sociale “In Migrazione”: “Il trafficante del Paese d’origine è spesso in contatto con il suo omologo dello Stato confinante, che ricatta la famiglia del migrante. E così fino alla Libia, dove tra l’altro i migranti vengono consegnati alla polizia, prima di finire nelle mani di altri trafficanti che proveranno a far loro passare il mare”. Un secondo elemento rilevante è che il percorso
Joy, nigeriana “Una donna mi ha detto che avrei potuto fare le pulizie. I pericoli? La mia famiglia non aveva nulla”
del migrante è concepito in modo da essere senza ritorno. “Hai pagato, ti sei indebitato. Il meccanismo è questo: puoi solo andare avanti o morire”.
Inoltre, l’attrattiva rappresentata dall’Europa e l’Occidente è ormai veicolata in modo diretto attraverso internet. Esiste una ben consolidata narrativa del migrante che ce l’ha fatta, e che invia selfie
agli amici – magari vicino a un monumento di una città europea, o a una macchina di lusso che finge sia la sua – postandoli sui social. Raccontare alle famiglie d’origine di aver subito un’odissea, porta con sé anche vergogna, quindi è meglio non farlo. Questo non significa, tuttavia, che non vi siano piani di informazione, anche da parte delle organizzazioni internazionali (Oim o Unhcr) sui rischi dei viaggi migratori.
FEDERICO BONADONNA,
antropologo, che ha vissuto e lavorato molti anni per diverse associazioni umanitarie tra Senegal ed Etiopia, illustra così la situazione: “Mentre in Eritrea o Sudan, non c’è conoscenza del mondo esterno e la fuga è quasi una necessità, le
Ong locali, soprattutto nei Paesi dell’Africa ex francese, indicano con precisione perfino spietata le contrarietà del mettersi in viaggio”.
Ma come i rischi del fumo per la salute non portano la gente a smettere, allo stesso modo la scarsa e male organizzata contro- informazione non riesce a bloccare le partenze. “Partire corrisponde a un disegno razionale, al contrario di quanto pensiamo noi in Europa”, ragiona ancora Bonadonna. “Spesso è tutta la comunità locale che si indebita per sostenere i migranti e poi attende le rimesse, dall’Europa, di cui molte comunità subsahariane basano la loro sopravvivenza economica”. In altre parole: c’è un vero e proprio sistema, ben oliato – anche se sostanza criminale, perché gestito da trafficanti di esseri umani – dietro il viaggio del migrante. Una trappola, sì, ma perfetta.