Dalla Prima
Riapre
vecchi fascicoli (intervistato alla vigilia di Capaci, mostra le carte di un dossier sui rapporti fra Mangano, Dell’Utri e B .). Scopre la trattativa esi prepara a farla saltare. Bisogna eliminarlo subito: qualcuno, dalle istituzioni, avverte i corleonesi e quelli, con un’accelerazione imprevista e suicida (basta aspettare altri 15 giorni e il decreto sul 41-bis, varato dopo l’omicidio Falcone, sarà affossato in Parlamento), rimuovono l’ostacolo in via D’Amelio. Alla preparazione dell’autobomba, in un garage del quartiere Brancaccio dominato dai Graviano, il killer pentito Spatuzza dirà di aver visto assistere un personaggio molto elegante, sconosciuto a lui e agli altri. E un altro pentito mai smentito, Nino Giuffrè, fedelissimo di Provenzano, racconterà che prima di agire Riina aveva “sondato persone importanti del mondo economico e politico”. Ma eliminare Borsellino non basta: se gli inquirenti trovano nell’auto semicarbonizzata l’agenda rossa su cui segnava gli esiti delle ultime indagini di quei 57 giorni, i suoi colleghi le seguiranno e bisognerà eliminarli tutti. Così viene architettato quello che la Corte di Caltanissetta definisce “il più grande depistaggio della storia” d’Italia. In due mosse: prima un uomo dello Stato, ammesso al perimetro ancora fumante della strage, trafuga l’agenda e la fa sparire; poi gli agenti della Mobile di Palermo guidata da Arnaldo La Barbera imbeccano un piccolo spacciatore travestito da boss, Enzo Scarantino, e due scassapagghiari come lui convincendoli o costringendoli ad autoaccusarsi della strage, a tirare in ballo qualche colpevole e qualche innocente, a mescolare mezze bugie e mezze verità, tenendo basso il livello delle responsabilità perché non si arrivi ai Graviano e ai loro suggeritori.
Missione compiuta: i dubbi su Scarantino – che nel frattempo alterna ritrattazioni a ritrattazioni delle ritrattazioni - dei pm Boccassini (a Caltanissetta) e Ingroia (a Palermo) vengono ignorati dalla Procura nissena, ma soprattutto da decine di giudici di primo, secondo e terzo grado, che consacrano irrevocabilmente la verità farlocca su via D’Amelio. Buona o cattiva fede? Difficile accertarlo un quarto di secolo dopo: certo era difficile, allora, dubitare di tre rei confessi e soprattutto del pluridecorato La Barbera, che ora i giudici definiscono “fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni” e“intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda”. Idem per il colonnello Mori, già allievo di Dalla Chiesa ai tempi delle Br, che intanto proseguiva la trattativa e, arrestato Riina, ordinava di non perquisirne il covo, a tutto vantaggio di Provenzano, nuovo terminale del turpe negoziato. Oggi, al 41-bis, ci sono decine di mafiosi che sanno tutto – movente e mandanti esterni – delle stragi e dei depistaggi. E, fuori, diversi pentiti che non hanno detto tutto perché convinti - come già Buscetta con Falcone su Andreotti – che negli anni del centrodestra e del centrosinistra le“condizioni politiche” fossero le più sfavorevoli per farlo. Ora si spera che, saltato il tappo, si faccia avanti qualcuno. Se aspettiamo un pentito di Stato, facciamo notte.