“SE HAI UN’ARMA, POI UCCIDI”
È lei che deciderà chi vive e chi muore
Il fatto è che Alberto Arrighi, titolare d’armeria, 37 anni, atletico, rasato, sembrava molto ragionevole. Maneggiando la sua Heckler and Koch, caricatore bifilare da 15 colpi, canna poligonale, mi diceva: “Regola numero uno: la pistola non è un pezzo di ferro. È geometria dinamica. È potenza. È potere assoluto. Ti cambia l’assetto, lo sguardo, la percezione dello spazio. Ma è anche un demone. Un drago. Che nel momento di tensione suprema, sputerà fuoco e fiamme. Deciderà chi muore e chi resta vivo”. Aveva occhi socchiusi e muscoli rilassati quando aveva aggiunto: “E il bello e che lei lo sa sempre prima. Tu no”. Sembrava molto ragionevole Alberto Arrighi, armiere della Como bene, addestratore di Corpi speciali di polizia e carabinieri.
Meravigliosamente preparato a maneggiare automatismi: respirare, mirare, colpire a colpo singolo o a raffica, fronteggiare la tensione e l’imprevisto. E tra gli imprevisti, a mettere in guardia dal peggiore: la paura. Ero andato a conoscerlo un giorno di inverno di dieci anni fa per la ricorrente inchiesta, modello: “Aiuto-arrivano-gli-immigrati-meglio-comprarsi-una-pisto
la!” pane per i denti di Matteo Salvini che già azzannava gli extracomunitari, tra i quali, allora, annoverava pure i napoletani. E strillava: legittima difesa per tutti, padroni a casa nostra!
Il termometro della paura era più o meno lo stesso di oggi. Con tutti i crimini in calo, ma con la paura che invece raddoppiava. Per colpa di tante cose messe insieme, la paranoia che si autoalimenta, il sangue che diventa rotocalco televisivo, il colpo d’occhio quotidiano che intercetta sconosciuti alla porta di casa, la politica che strilla per trasformare la paura in voti. E naturalmente le lusinghe degli armieri delle armerie che facevano e che fanno affari d’oro.
Eppure questo Alberto Arrighi era proprio speciale. Né ruvido, né invasato. Nella sua bellissima armeria tirata a specchio, proprio al centro di Como, tra Remington a pompa, Winchester cromati e Smith & Wesson 357 con guance di legno, mi diceva: “Vengono da me in processione. Vogliono armarsi perché la moglie la sera prima ha sentito dei rumori. Perché un vicino ha visto gente sospetta. Perché non gli basta più il Pit bull e la telecamera a infrarossi. Perché la tv ripete che siamo tutti in pericolo”.
E lui, l’Arrighi, li spegneva come si fa con le sigarette: “L’arma è un salto, amico mio. C’è un prima e un dopo. Sei sicuro che avrai il coraggio di sparare? Di uccidere? Perché se nel momento fatale scoprirai che non lo sei, che hai troppa paura, la pistola ti si rivolterà contro. Scoprirai che i cattivi sono quasi sempre più cattivi di te. Più svelti a disarmarti, picchiarti, spararti”.
Tutto chiaro?
Parlava con il buon senso dei pacifici, l’Arrighi. O, se volete, degli esperti di armi da fuoco, tipo un colonnello dei carabinieri che avevo incontrato sempre da quelle parti di Brianza ricca, dopo un assalto in villa col morto. E il colonnello mi aveva detto: “La determinazione dei cattivi è infinitamente più efficace della paura delle vittime”.
Con tante buone chiacchiere, cattivi aneddoti e scegliendo, tra cento pistole, due scintillanti Glock calibro 9, adatte ai primi rudimenti, io e l’Arrighi ce ne siamo andati al poligono di tiro, come fosse un pranzo. Nel salone dei bersagli, un potente odore di cordite. E un plotone di bravi commercianti che sparacchiava alle sagome, come fossero a Den Bien Phu, Vietnam, nei giorni dell’offensiva. Tutta brava gente che un’ora dopo, al bar del Tiratore per lo spritz, mi raccontava sempre la stessa storia: finestre in frantumi, allarmi che svegliano di notte, urla, paura. Tra loro un avvocato che era sicuro di saperla lunga: “I più cattivi sono i moldavi. Non hanno paura di niente. Hanno fame di soldi, belle donne e bella vita. Sono predoni sempre in caccia”. I moldavi dice? Aspetti che me lo segno.
Sulla linea di tiro, davanti ai bersagli, l’Arrighi è pedagogico: impugnatura con le due mani a coppa, la pistola vicino al petto, la canna verso terra, mai il dito sul grilletto, le gambe leggermente divaricate, respiro regolare, lo sguardo mobile a percepire movimenti intorno. Puntare veloce. Un attimo. Per poi tornare nella posizione di attesa.
“Lo sai come si chiama quello che stiamo provando? Si chiama CQB, Close Quar
ter Battle, battaglia in uno spazio chiuso”.
“Che sarebbe?”
“Come muoversi in un spazio potenzialmente ostile. Per esempio la propria casa durante un assalto”.
Sorride. Mi fa infilare la cuffia, gli occhiali di protezione, mi dice: “Proviamo con tre colpi in sequenza al mio via. Sei pronto?”.
Scarrello il primo colpo in canna. So che il grilletto innescherà il cane colpendo la carica esplosiva facendola passare dallo stato solido a quello gassoso e innescando una spinta di uscita del proiettile da 390 metri al secondo. Prima ci sarà il lampo, e quando sarà già troppo tardi, il tuono.
Tre tuoni, tre centri, proprio come capita ai principianti. Poi mai più per due caricatori. E l’Arrighi, che era molto ragionevole anche in quella circostanza, aveva detto: “Ok, non sei molto tagliato per la difesa personale, ma se vuoi in un paio di settimane ti aggiusto il tiro”.
Come no, gli dissi, ma poi non se ne fece niente. Mai più passato da quelle parti per un anno intero, anche se l’Arrighi due o tre volte s’era fatto vivo, contento di essere stato invitato in tv a fare l’esperto di armi e di legittima difesa, pieno di competenze militari e insieme di civili, anzi civilissime considerazioni sui molti pericoli connessi alle armi in mano ai dilettanti: “Meglio uno spray anti aggressioni – diceva alle golose intervistatrici bionde – Meglio un allarme che suona”.
Poi un giorno mi chiamano da Como. Mi dicono: hai visto cosa ha combinato il tuo amico Arrighi? Arrighi chi? L’armiere. Ah, il ragionevolissimo armiere di Como. Ragionevolissimo mica tanto, mi dicono.
E mi raccontano che un brutto pomeriggio di febbraio, l’Arrighi attese proprio in armeria un tale signor Brambilla, proprietario di pompe di benzina, che gli aveva prestato 80 mila euro e da giorni lo tempestava di telefonate per riaverli. Lo fece entrare nell’ora di chiusura, lo portò nel retro, in laboratorio, gli sparò in testa due volte con una Luger calibro 22, poi un colpo in faccia, “perché ancora rantolava”, con la pistola della vittima, una calibro 40. Immaginandosi furbo gli aveva staccato la testa con un seghetto da caccia, avvolgendola nella plastica. Per poi trascinare il resto del corpo nel Porsche Cayenne della vittima, guidare per 150 chilometri, fino a una discarica a Crevalodossola, in Piemonte. Tornare indietro con un taxi. Recuperare la testa. Chiamare il suocero, proprietario di pizzeria. Mettere in forno la testa “e farla cuocere a lungo per distruggere i connotati”.
Il capo della Mobile e tutti gli sbirri amici di Arrighi ci avevano messo meno di un giorno a identificare la vittima. Che non era stato ucciso da un moldavo. Né da una banda di albanesi. Ma che aveva in agenda un appuntamento in armeria. La più elegante di Como. Che in armeria c’era entrato vivo e ne era uscito diviso in due. E che telecamere, telefonini, testimonianze di moglie e amici raccontavano tutti la stessa storia. Poi c’era il movente del debito. E infine il luminol che steso nel retro dell’armeria si era acceso come fosse la notte di Natale.
L’Arrighi per un po’ tergiversò. Poi si decise. Raccontò che quello lo minacciava. Lo insultava. E che prima di pensare, aveva sparato due colpi in sequenza, al bersaglio piccolo della testa, centrata due volte, come fosse al Poligono. Come fosse al CQB, il Close Quarter Battle. Ma che in realtà aveva deciso tutto la pistola, il drago che sputa fuoco e fiamme, il demone che decide chi muore e chi resta vivo.
Al processo ha ammesso le colpe, la crudeltà, l’idiozia del delitto. Non so se ha ancora stramaledetto le pistole che amava. Ma sono sicuro che nei trent’anni di condanna che sta scontando, prima o poi lo farà.