“La mia rivincita con Loredana, Renato e Patty”
I 70 anni del giornalista creatore di Dagospia: “Timido con Arbasino e Zeri”
“Mica vorrà parlare dei miei 70 anni”. Un po’. “Questo tipo di chiacchierate rischiano di diventare sgradevoli”. Perché? “Alla fine sei costretto a stilare un bilancio della vita, e i bilanci sono sempre pesanti, tra attese iniziali e risultati finali; tra castelli di sabbia e realtà di cemento. Non quadra mai tutto”, riflette Roberto D’Agostino mentre si accende un sigaro, si sistema la camicia bianca aperta quasi fino all’ombelico, si accomoda in poltrona. Con lui i tatuaggi sono solo l’apparenza più esplicita, ultima traccia di un’esistenza giocata su note simili a un romanzo di avventura, con venature da saggio esistenziale, o satira di costume. È una sorta di rigattiere delle esperienze, le più diverse; una lavatrice assemblata senza la classica attenzione al bianco o alle tinte: non importa, va benissimo il color-Dago.
Il suo ufficio è come un quadro pop-art: Elvis è appeso al muro e suona a ogni cader di ora; la foto con Renzo Arbore, o quelle nude di Patty Pravo. Forme falliche ovunque. Santini. Falce e martello, il vecchio computer della Apple diventato un soprammobile. Una Simmenthal gigante come tavolino.
Ieri sono diventati 70.
La differenza con i 30 o i 40 anni è la consapevolezza di essere diventati giovani. E reinventarsi è l’unico modo di stupire sempre se stessi.
Quante volte ci è riuscito? In tre o quattro casi: l’obiettivo era trovare un lavoro piacevole, costruito intorno a una passione, solo così la fatica non arriva.
Ha iniziato in banca... Entrato nel 1968, felicissimo: la certezza di mettere insieme il pranzo con la cena, e ben 16 mensilità.
Dove viveva?
A San Lorenzo, quartiere unico e proletario, ma solo prima dell’arrivo dei barbari.
I barbari, sono?
Gli studenti universitari. Lì sono cresciuto in una realtà particolare, chiusa, ci conoscevamo tutti e tutti eravamo alle prese con lo choc dei bombardamenti: i miei non andavano da Pommidoro (ristorante noto anche per Pasolini), perché il cantinone era stato un rifugio dove avvenne una carneficina.
Una sorta di paesone. Ognuno con un soprannome.
Il suo?
A 14 anni avevo gli occhiali ed ero balbuziente: mi chiamavano Quattrocchi o Tartaja.
Deriso.
Fino a quando ho pregato mia madre di portarmi dal logopedista e ho impiegato anni per risolvere il problema, o almeno arginarlo: ancora oggi dico “pissicologia”.
La sua fuga dalla balbuzie? Mi rifugiavo nelle letture e quando i libri non bastavano, “co m un i ca v o” con i pugni. Questione di sopravvivenza.
Il primo rapporto sessuale. Un’impresa a metà degli anni Sessanta. Con un gruppo di amici siamo andati al Mandrione ( periferia romana), dove c’erano le baracche delle prostitute, tutti armati di profilattici simili a copertoni di camion. Quando scopavi sentivi il battistrada, ma già l’idea e la vista di una donna nuda, bastavano.
Così difficile avere un rapporto?
A bocce ferme, lo possiamo dire: l’unica rivoluzione che è diventata realtà non arrivò dalle ideologie ma dalla farmacia, dalla scienza, a partire dagli anni Settanta grazie alla pillola, e poi con il Viagra. Torniamo a San Lorenzo e gli studenti...
Un giorno mi fottono la 500, vado al bar da Er Patata, entro incazzato: ‘Ma questi che vojono rubà a casa dei ladri?’.
E il Patata?
Affranto, risponde: ‘Si sono sbagliati, scusa’. Poco dopo ritrovo l’auto.
( Scocca l’ora, Elvis canta “Hound dog”)
Cosa leggeva?
Io e il mio amico Paolo Zaccagnini (critico musicale), nel 1964/65, eravamo prigionieri felici dei libri della Beat Generation, il nostro manifesto era l’introduzione di Fernanda Pivano a On the road di Kerouac, poi fui stregato dal profetico La società dello spettacolo di Guy Debord.
Come ha conosciuto Zaccagnini?
Nel 1965 frequentavamo gli stessi due posti: lo studio radiofonico di Bandiera gialla e il Piper; in particolare al Piper si è formato un gruppo di “reietti sociali”, capelloni con abbigliamento considerato perfetto per il gay pride, tra cui brillavano Nicoletta (Patty Pravo), Renato (Zero) e Loredana (Bertè).
Chi era il più talentuoso? Nessuno. Ma non per mancanza, solo perché tutto il mondo attorno a noi era lontanissimo dalla nostra sottocultura pop.
Innamorato della Pravo? No.
Della Bertè?
Aveva le gambe più belle, uno stacco di coscia che accendeva sogni proibiti: quando entrava al Bandiera gialla gli occhi erano solo per lei.
Chi era il leader?
Paolo era trascinante, mentre io, ancora balbuziente, ballavo, tanto da finire tra i Collettoni di Rita Pavone, e poi comparsa in un paio di film di Lina Wertmüller. E sempre con Paolo nel 1965, vado a Londra senza il becco di un quattrino: dormivo per terra nella sua stanza.
Conosceva l’inglese?
Mi arrangiavo con un vocabolario circoscritto ai testi dei Beatles, Bob Dylan e Rolling Stones: compravo Sorrisi e C a n zo n i e traducevo i loro pezzi... Fino al 1968 è stato un periodo felice, culturalmente effervescente, ogni giorno una sorpresa; poi dal ‘68 al ‘78, dieci anni folli, salvati solo dalla liberazione sessuale.
Il primo film porno?
A casa di un collega di banca, era organizzato con il proiettore sparato su una parete bianca; all’epoca esisteva un contrabbando di pellicole hard, visioni che riservavano dei coccoloni ormonali, men- tre per scopare dovevi frequentare i gruppi politici. Il più fecondo?
Lotta continua, il migliore per promiscuità, mentre Potere Operaio era zeppo di maschietti picchiatelli. In Lotta continua alla fine comandavano le donne. La prima volta si è sposato nel 1972.
A 24 anni con Tina Semprini. Mia madre morì a 50 anni per un tumore, mio padre, saldatore alla Breda, la pagò con un cancro al polmone. Volevo una famiglia. Grandi festeggiamenti?
In chiesa con i familiari e serata in casa con gli amici. Bisboccia “rovinata” dalla mitica Pivano; a un certo punto, chiede silenzio: ‘ Ora i maschietti vanno in cucina a lavare i piatti, pulire i bicchieri, mettere a posto. Noi restiamo qua a chiacchierare’. Anche Zero in cucina?
Non c’era, ma con Renato ho condiviso molto altro. (Abbassa la testa e mostra una cicatrice sul cranio) Cosa è successo?
Anno 1965, correvamo con la 500 di un amico. All’incrocio di via Sicilia, una precedenza non rispettata e veniamo travolti da un’altra vettura: entriamo direttamente dentro un negozio di pompe funebri. Ci spacchiamo la testa. Sanguinanti, arriviamo in ambulanza al Policlinico e lì accade un altro incidente: io al reparto maschile mentre Renato, in panta-collant glitterato, capelli sulle scapole, lo portano dalle donne. Roba da scenetta comica.
Urlo: ‘Cosa fate! Non lo vedete che ha il cazzo?’. Gli infermieri erano davvero convinti del fascino femminile di Renato, che era bellissimo, usciva di casa vestito “normale”, arrivava da me, si cambiava nel portone, e prendevamo la circolare direzione Piper.
Dopo un incidente d’auto siamo finiti in ospedale, solo che lo hanno scambiato per donna: allora era bellissimo
CON RENATO FIACCHINI
All’inizio preferivo Arbore. Per lui eravamo sbarbatelli Abbiamo legato durante le sue ‘Domenica In’
GIANNI BONCOMPAGNI
Matrimonio finito per...? Anche per eccessi sessuali: allora è successo di tutto. Vuol dire?
Totale sregolatezza, comprese le droghe: c’erano persone che tornavano dall’India con le palline di oppio in tasca, i finanzieri neanche capivano. In banca come la guardavano?
L’agenzia era a Centocelle, quartiere inzeppato di immigrati del sud; dopo un anno si erano abituati alle mie stravaganze, compresi i capelli lunghi; l’unico accenno di insofferenza, per gli zoccoli olandesi: troppo rumore. In quegli anni a Centocelle viveva Enrico Nicoletti, poi cassiere della Banda della Magliana. Lo conoscevo benissimo, in teoria aveva una concessionaria d’auto, in realtà prestava soldi a chi non otteneva fidi dalla banca: uscivano da me con un “no” e si rifugiavano da lui che staccava assegni. Tipo losco...
Simpatico, come capita spesso ai delinquenti. Un giorno lo accompagno nel caveau : ‘ Come mai hai due pareti di cassette di sicurezza?’. E lui: ‘ Ap ri ’. Obbedisco, e mi ritrovo davanti a una distesa di sterline oro: unica valuta non tracciabile. Vero professi on ista. Ribadisco, uno simpatico e con regole: una mattina ero allo sportello, servivo un cliente, arriva il figlio, mi interrompe. ‘Un attimo e ti do retta’. Il ragazzo inizia a insultarmi e Nicoletti parte con due schiaffoni al figlio: ‘Porta rispetto’. Nicoletti è stato carabiniere. L’ho visto accompagnato da un generale dell’Arma tutto impennacchiato: ‘ Ti hanno arrestato?’ ‘È il mio autista’. Così nessuno lo fermava. Passo indietro: Bandiera Gialla. Lei ha dichiarato: “Arbore non si tocca, un mito, mentre con Boncompagni non ho mai legato troppo”. A quei tempi Gianni era già straordinario e forse noi sbarbatelli gli risultavamo noiosi, fragili culturalmente; è andata meglio quando a metà degli anni Ottanta ho partecipato alle sue Domenica In: ero cresciuto e abbiamo legato. Si sente un numero uno?
In assoluto no, però in alcune occasioni ho dimostrato coraggio e incoscienza, specialmente nel 1978 quando mi sono licenziato dalla banca. Partecipò all’Estate romana dell’allora assessore Nicolini... Renato è stato fondamentale per uscire da quegli anni Settanta di paura e morte, dove la gente la sera restava in casa, atterrita da pallottole volanti e scontri con la polizia. Ha permesso ai romani di riconciliarsi attraverso la cultura: sola e unica politica. Ha sentito la paura?
Una mattina, con l’es ki mo d’ordinanza, passo in piazzale Clodio e vedo uscire dal tri- bunale un gruppo di fascisti. Non scappo, tranquillo della presenza delle forze dell’ordine. Col cazzo. Mi circondano e iniziano a sputarmi, uno schifo non descrivibile. Partecipava alle manifestazioni?
Una volta con mia moglie Tina per scappare dalle cariche e dalle molotov in piazza Santa Maria Maggiore ci rifugiamo con altri compagni all’interno dell’Upim; fuori ci aspettavano i celerini, mia moglie era disperata, ‘ti buttano fuori dalla banca’, così prendo al volo un completo grigio, entro nel camerino, lo indosso, pago. Esco. Sembravo davvero un bancario.... Si ritiene sopravvissuto?
Solo uno che ha vissuto, con i suoi errori, e con la fortuna di essere nato nel 1948 e di aver goduto di decenni fantastici, compresa l’attuale rivoluzione digitale. I suoi anni Ottanta...
Grazie a Quelli della notte, sono entrato nei famosi salotti romani, ho iniziato a frequentare persone in grado di ma-
ciullarti con una sola battuta, personalità come Ettore Scola o Paolo Villaggio, Sergio Corbucci e Achille Bonito Oliva. La prima regola? Dissacrare il banale e la retorica. Sempre, chiunque.
Una sera arriva Liza Minnelli, girava a Roma un film e doveva restare in città almeno tre mesi. Finita la cena le chiediamo di cantare, lei ci rivolge uno sguardo semi- schifato. Torna qualche giorno dopo, stessa scena. Alla terza cede, va al pianoforte e intona qualche pezzo. Scalpo ottenuto...
Dalla volta successiva inizia a cantare a ripetizione, e noi pronti a sciabolare cinismo: ‘ Che palle, questa ricomincia…, vedi, ora fa Money Mo
ney, non c’è nulla in Tv?’; quando Scola appariva sulla soglia del salotto di Irene Ghergo, esclamava: ‘Quanta brutta gente…’. E tra i presenti c’erano Alberto Moravia, i Rosi, Ruggero Guarini, ecc. Quanti anni ha impiegato per sentirsi a suo agio?
Avevano una cultura strepitosa: uno come Federico Fellini mi intimoriva, così come Enrico Lucherini o Sergio Corbucci. Corbucci non amava Sergio Leone.
Rivali di spaghetti western. L’aveva soprannominato: “Francis Ford Caccola”. Ma le cene erano battaglie: chi partecipava si preparava a casa con aneddoti e battute, non si andava impreparati, mangiare era un optional. Lei timido...
Da trentenne, da adulto solo con Alberto Arbasino e Federico Zeri. Insieme a Zeri ha scritto un libro.
Un lavoro di sei mesi, e vivere con lui è stata un’esperienza non replicabile. Un genio. Magari parlava in inglese, la barzelletta in tedesco, la battutina in francese, la calata in romanesco. Quanto ha lottato con la calvizie?
Colpa dei capelli verticali.
Eh?
Fine anni Settanta, parto per New York, dovevo assolutamente vedere lo Studio54. Ci riesco. E incontro John Sex (performer) con il suo grattacielo tricologico. Un’illuminazione.
Per anni ho mantenuto la stessa acconciatura e con degli sforzi improbi, coadiuvati dalla lacca Cielo Alto. Potentissima. Credo di essermi bucato pure il cervello. E per mantenere la forma dormivo con i piedi fuori dal letto. Una mandrakata.
Quando mi rendo conto di non poter più tamponare il crollo, mi affido a un guru statunitense. Arrivo nel suo studio e scopro che è pelato. Boh. Si presenta il figlio, anche lui calvo. Altro boh. Ma il meglio è stata la moglie: aveva quattro capelli in testa. Se n’è andato...
No, ho provato lo stesso, mi hanno spalmato in testa dei prodotti osceni e puzzolenti; alzo la testa e accanto a me c’era Federico Fellini. Del gruppo anni Sessanta, chi frequenta ancora?
Sono legato a tutti, insieme abbiamo attraversato l’ostilità della società: quegli anni valgono più di un grado di parentela. ( Si ferma, sorride)
Con Paolo sono stato cacciato di casa. Per cosa?
Nel 1967 andiamo al concerto dei Rolling Stones e restiamo folgorati dall’abbigliamento di Brian Jones: pelliccia di lupo e scarpine rosa. Impossibile non imitarlo.
Torno a casa, apro l’armadio di mamma e le prendo una orribile pelliccia di astrakan, lastricata di vermoni pelosi; Paolo fa lo stesso, con un visone. Usciamo, direzione Piper. Al ritorno trovo i miei sul balcone e in lacrime: ‘Abbiamo il figlio frocio’. Negli anni le hanno dato spesso del gay.
In particolare ai tempi di
Quelli della notte. Si piace?
Se mi piacessi intellettualmente, raggiungerei il massimo dell’imbecillità.
(Sulla parete ha affisso al neon una frase dei Nirvana: “Nessuno muore vergine, la vita fotte tutti”. Auguri)
Sesso, droga, anni 70 Erano anni folli: c’era chi tornava dall’India con le palline di oppio, i finanzieri non capivano