Il Fatto Quotidiano

Le tette di Capitan Tempesta

E LA CHIAMANO ESTATEUna stagione di grandi passioni

- » PACO IGNACIO TAIBO II

Èandata

così. O così mi ricordo, che poi è come se fosse andata così, perché chi mai potrebbe giocare con la mia memoria se non io stesso?

Quindi, suppongo che sia andata così e che fosse estate. Il verde delle Asturie sfolgorava in sedici tonalità diverse e le cabine sulla spiaggia brillavano sotto il sole, cosa di cui non me ne fregava niente, perché io, a differenza di tutti gli abitanti di Gijón, non ero un feticista dell’estate e mio zio mi aveva messo sul comodino i romanzi di Salgari che mi mancavano, cioè: Capitan Tempesta, Il leone di Damasco e La galera del Bajá. Stavo riemergend­o dalla lunga sfilza di malanni primaveril­i: tonsillite, raffreddor­e, parotite.

Racconto inedito di Paco Ignacio Taibo II (traduzione di Pino Cacucci), scritto per il numero di “linus” di luglio.

Fino a quel momento li avevo avuti tutti almeno un paio di volte, e mi stavo persino accingendo a farmi una ricaduta di alcune di quelle malattie che si prendono soltanto una volta, come la scarlattin­a e gli orecchioni, così da avere più tempo per leggere anziché sprecarlo a scuola. In quel periodo della mia vita avevo già scoperto che la scuola interrompe l’istruzione e non ero disposto a permettere che l’aritmetica o le scienze naturali mi rovinasser­o le letture di Salgari, Verne, Zévaco e Karl May. Ma mio padre aveva scoperto la ragione delle mie frequenti malattie. E aveva anche trovato una formula di contrattac­co: “Se non ti ammali ti regalo tutta la serie su William di Richmal Crompton e L’ultimo dei mohicani”.

L’OFFERTA ERA ALLETTANTE. Mentre decidevo cosa fare del mio futuro, dicevano che era arrivata l’estate e io avevo tra le mani Capitan Tempesta assediato a Famagosta sotto lo spietato cannoneggi­amento dei turchi, che a detta di mio zio Pepe erano i fascisti dell’antichità, e secondo Rodrigo Artime, grande amico di mio padre, erano “antichi” e basta, perché mio zio Pepe era anarchico fino al midollo e Rodrigo Artime pensava che il mondo fosse iniziato a Firenze durante il Rinascimen­to.

E Capitan Tempesta era un portento, usciva allo scoperto e sfidava i turchi a singolar tenzone, e sapeva sferrare una stoccata segreta di notevole efficacia e risultato micidiale. E c’era un tipo che andava ficcanasan­do nella sua vita, un capitano che mi pare fosse polacco, cristiano e polacco, cioè uno dei suoi, ma se la passava a dire fanfaronat­e e a rompere le scatole. E a un tratto feriscono Capitan Tempesta e, togliendog­li la cotta, l’elmo e tutta la ferraglia che aveva addosso, accidenti, si scopre che era una donna. E anche se nel libro non veniva spe- cificato, di sicuro si erano viste le tette. Così uno se l’immaginava. Momento di profonda riflession­e. Capitan Tempesta era una femmina. E divoravo pagine su pagine, sotto le lenzuola con la pila, e poi mia madre, nei chioschi sotto lo scarso sole estivo di Gijón, diceva che questo bambino era un po’ strano, e mia zia Sara doveva sospettare che alla mia tenera età di otto anni me lo menassi con eccessiva frequenza, idea del tutto calunniosa, e diceva che in effetti ero mezzo “rincoglion­ito”. E il/la Capitan Tempesta ne combinava di tutti i colori, era il coraggio personific­ato, senza eguali al mondo, e poi si sposava con un turco che era sì un rinnegato, ma pur sempre turco. Al che zio Ignacio diceva che quelli erano i migliori, i rinnegati, come Galileo Galilei, del quale non avevo ancora letto niente, ma prendevo nota del nome. E Capitan Tempesta era femmina, diceva quel me stesso ammirato, in quell’estate gijonese immersa nelle mezze parole e le autocensur­e del franchismo e il sole che quando c’era rincoglion­iva e i miei vani tentativi nella cucina di casa di imitare la stoccata segreta, armato di attizzatoi­o per rimuovere le braci nel camino, che poi mi venne sequestrat­o perché ritenuto pericoloso e sostituito da zia Ángeles con un pezzo di manico di scopa. E via, due finte di fronte, giravolta, affondo, stoccata sotto l’ascella del nemico, nel punto scoperto tra il braccio e l’armatura. Stoccata di origine veneziana che Eleonora d’Eboli aveva imparato dal suo maestro d’arme, che secondo zio Pepe era uno in gamba e non poteva essere fascista e che secondo Rodrigo Artime era un “fine artista veneziano”. Una stoccata che oggi definirei ascellare.

E doveva essere sotto quella brutale offensiva femminista, ciò che significò nella mia vita l’ingresso della capitana Tempesta, che sarebbe apparso il sesso. Mia madre mi aveva sequestrat­o dalle sedute di lettura per portarmi sulla spiaggia senza libri, con i miei amici e le loro mamme, cioè le sue amiche, e facevamo una gran baldoria tutti assieme, con secchielli e palette e palloni. L’acqua era gelata, ci bagnavamo appena la punta delle dita dei piedi.

Per dimostrare che ero un uomo senza pregiudizi, stavo provando la stoccata segreta mentre ero in porta in una partita di calcio nella quale fortunatam­ente accadeva tutto davanti alla porta degli avversari, quando mia madre, al grido di Pacoignací­n, mi mandò alla nostra cabina a prendere una frittata di patate. Lasciai la porta sapendo che non poteva succedere niente in mia assenza e mi incamminai verso la cabina dove eravamo soliti lasciare il vestiario e il mangiare. Questa realtà delle cabine, che essendo variopinte rallegrano una piccola parte della sterminata spiaggia di Gijón, credo abbia origini ottocentes­che, alquanto puritane, e segnava una sorta di demarcazio­ne classista tra la zona orientale della spiaggia e quella occidental­e, dove la gente si cambiava usando sempliceme­n-

Salgari soprattutt­o Mio zio mi aveva regalato tutti i romanzi che mi mancavano Ma quando ho scoperto che quel ‘guerriero’ non era un uomo...

L’INCONTRO CASUALE

Alzò lo sguardo e colse il mio, in stupefatta adorazione, e senza dire una parola si coprì i seni. Balbettavo

te un asciugaman­o, e poi se ne tornava a casa con il culo pieno di sabbia e il costume da bagno sotto i pantaloni.

LA PORTA della cabina era chiusa con il solito chiavistel­lo, quindi lo sollevai e mi infilai dentro.

Il cielo si spalancò davanti ai miei occhi.

Lì dentro c’era la madre di due mie amichette, con il costume da bagno abbassato sui fianchi e due enormi seni bianchi che splendevan­o. La donna si era infilata la parte inferiore di un costume verde smeraldo, non aveva ancora avuto il tempo di indossare la parte superiore e le spalline penzolavan­o mentre lei aveva lo sguardo distratto che vagava sul pavimento. Alzò lo sguardo e colse il mio, in stupefatta adorazione, e senza dire una parola si coprì i seni con le braccia mentre io, rosso più di un pellerossa, tipo Winnettou per intenderci, balbettavo qualcosa di assurdo, prendevo la frittata e scappavo di corsa verso la porta del campo di calcio, dove mia madre venne a recuperarm­i poco dopo, chiedendos­i perché suo figlio fosse così rincoglion­ito da giocare come portiere con il vassoio della

frittata di patate tra le mani.

Dovette strapparme­lo con la forza, visto che lo trattenevo neanche fosse il pallone mai arrivato nella mia porta. Avevo il pensiero fisso sui gloriosi seni della madre delle bambine, un paio di tette che dovevano essere come quelle di Capitan Tempesta, senza un solo centimetro quadrato di pelle in meno. Alla fine dell’estate, tornando a scuola, a causa delle mie frequenti assenze venni relegato negli ultimi banchi, perché le prime file erano riservate a quelli che prendevano buoni voti, e dovetti condivider­e un lungo banco a tre posti con Facciadacu­lo, così chiamato dai suoi detrattori, perché un asino gli aveva dato un morso in faccia e gli era stato trapiantat­o sulla guancia un pez-

zo di pelle preso da una natica. Facciadacu­lo si sedeva sempre nell’ultimo banco e accanto gli avevano messo il suo unico amico, un certo Fermín, magro come un personaggi­o dei fumetti, con il naso acuminato quanto un sonetto di Quevedo, e che i soliti detrattori, che non mancavano mai, avevano ribattezza­to Fa cci adac azzo, anche per via della vicinanza con

F ac ci ad ac ulo. Purtroppo né Facciadaca­zzo né Facciadacu­lo, che giocavano a calcio piuttosto bene, erano minimament­e interessat­i a Capitan Tempesta o al suo aiutante, l’albanese Moko, e la loro conoscenza del sesso era alquanto primitiva e poco informata. La maestra insisteva a volerci spiegare la differenza tra il diametro, il raggio e la circonfere­nza. Con un simile addensarsi di nefaste prospettiv­e, decisi che la cosa migliore che potessi fare nella vita era ammalarmi e quindi mi presi un’itterizia che mi permise di leggere l’intera serie di romanzi su Pardaillan di Zévaco, senza essere disturbato. O almeno così ricordo.

E OGGI SO ,a q u a s i s e ssant’anni di distanza, che la mia indole egualitari­a e profemmini­sta ha origine in quell’estate segnata da Capi

tan Tempesta, che sarebbe stata confermata in un’altra estate, quella del ’68, durante il grande sciopero universita­rio. E che i candidi e immacolati seni delle mamme dei miei amici di infanzia sono il patrimonio comune della memoria dei romanzieri; che sanno bene di condivider­e con i loro lettori gli amori in quel territorio comune rappresent­ato dalla nostalgia dell’infanzia.

IDEALI PER SEMPRE

E oggi so, a quasi sessant’anni di distanza, che la mia indole egualitari­a e profemmini­sta ha origine lì

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linus Autori vari Prezzo: 6e Editore:La nave di Teseo - Baldini + Castoldi
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Ansa Lo scrittore Paco Ignacio Taibo II
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