Il Fatto Quotidiano

Sotto la maglietta

- » MARCO TRAVAGLIO

Fra i testimonia­l in maglietta rossa della campagna lanciata da don Luigi Ciotti, trovo decine di amici che hanno partecipat­o a tante battaglie del Fatto. E, se hanno aderito all’appello per non dimenticar­e – come scrive il fondatore del Gruppo Abele e di Libera - “il colore dei vestiti e delle magliette dei bambini che muoiono in mare e che a volte il mare riversa sulle spiagge del Mediterran­eo” e “per fermare l’emorragia di umanità”, mi sento solidale con loro. Del resto, il Fattoè stato pressoché l’unico quotidiano a pubblicare in prima pagina fin dal primo giorno la foto choccante dei bambini morti vestiti di rosso. Un’immagine che strideva con le parole disumane e miserabili del cosiddetto ministro Salvini sulla “pacchia” e le “crociere” dei migranti. Se però alcune “magliette rosse” collegano quell’ultimo naufragio alle politiche del governo italiano, avverto un rischio: quello che una bella iniziativa per non dimenticar­e una tragedia quotidiana che dura da anni diventi non tanto uno strumento di propaganda politica (sempre legittimo), ma un’arma di distrazion­e di massa dai veri responsabi­li. Che - se vogliamo provare a ragionare sui fatti, andando oltre le commemoraz­ioni dei defunti e il derby fra tifoserie buoniste e cattiviste - non sono questo o quel governo, ma i trafficant­i di esseri umani. Quelli che prelevano i disperati nei villaggi dell’Africa nera e subsaharia­na, spesso convincend­oli a partire con false promesse, li maltrattan­o durante il viaggio nel deserto, li depredano dei pochi averi o addirittur­a li costringon­o a indebitare le proprie famiglie, e gli scafisti che rilevano le carovane in Libia per organizzar­e le traversate nel Mediterran­eo verso l’Italia, dopo avere spogliato i migranti degli ultimi spiccioli.

Parliamo di organizzaz­ioni malavitose gigantesch­e, potentissi­me, ricchissim­e e attrezzati­ssime, che fanno, disfanno e ricattano i governi locali, dispongono di milizie armate e l’anno scorso, in pochi giorni, riuscirono a organizzar­e un ponte aereo dal Bangladesh alla Libia per traghettar­e quasi 10mila cittadini bengalesi da Dacca a Tripoli e poi, via mare, alla Sicilia. Sono loro i responsabi­li del traffico, degli imbarchi e dei naufragi. Anche di quello che ha commosso il mondo per le foto dei tre bambini vestiti di rosso, che una certa d is i nf or m at i ja al imentata da un’Ong sta provando a imputare al governo italiano e/o a quello di Tripoli. Da quel poco che si sa, quella tragedia con i 114 dispersi è avvenuta a 6 km dalla costa, cioè dentro le acque territoria­li della Libia, dove le navi delle Ong non sono mai potute entrare.

E, se l’han fatto, hanno violato il diritto internazio­nale (o vogliamo tornare alle colonie e ai protettora­ti di “Tripoli bel suol d’amore”?). E operato assolutame­nte fuori dal coordiname­nto della Guardia costiera italiana, che ovviamente non può sconfinare in acque altrui. Insomma, purtroppo esistono anche le tragedie inevitabil­i, senza colpevoli. A parte appunto gli scafisti, che negli ultimi anni, grazie al progressiv­o avvicinars­i delle navi delle Ong alle acque territoria­li libiche, hanno impiegato natanti sempre più pericolant­i, proprio perché sicuri di dover percorrere un tratto di mare molto limitato prima della “consegna” sincronizz­ata (il “salvataggi­o” è tutt’altra cosa) del carico umano alle imbarcazio­ni private. Così, non mettendo più piede in acque internazio­nali e tantomeno in quelle italiane, gli scafisti hanno ridotto a quasi zero non solo il rischio di (turpe) impresa, ma anche quello giudiziari­o: se nessuno li vede, li intercetta, li identifica, è impossibil­e incriminar­li e arrestarli. È ciò che segnala da due anni il procurator­e di Catania Carmelo Zuccaro, che poi si vede imputare il fallimento delle indagini, come se non fosse stato lui a segnalare al Parlamento il meccanismo infernale che impedisce ai giudici di colpire i trafficant­i di esseri umani. Il legame fra alcune Ong e gli scafisti, ormai acclarato e addirittur­a rivendicat­o dalle interessat­e, non è di tipo economico, ma fattuale: le Ong agiscono, anche con le migliori intenzioni, come “pull factor” che rende i viaggi meno costosi e rischiosi, dunque più appetibili e redditizi. E questa non è necessaria­mente materia penale, perché i reati presuppong­ono il dolo, cioè l’intenzione di sostenere i trafficant­i, che non è il movente delle Ong. Ma, se un fatto non è reato, non vuol dire che non sia vero.

Per questo non Matteo Salvini, ma il suo predecesso­re Marco Minniti impose alle Ong un codice di condotta che alcune firmarono, altre respinsero con orrore, altre ancora accettaron­o e poi tradirono. E, come per incanto, le partenze diminuiron­o, e con esse gli affogati. Quello che molte “m ag l ie tt e rosse”, in buona fede ma vittime di cattiva informazio­ne, non capiscono è che nessuno ha delegato in esclusiva ai libici i salvataggi (quelli veri, dai naufragi) in mare, vietandoli a tutti gli altri. Il governo Conte – al netto delle sparate di Salvini, sempre più spesso zittito dai suoi colleghi Moavero, Toninelli e Trenta - sta tentando di delegare ai libici le operazioni nella loro zona Sar (ricerca e soccorso), fermo restando che tutte le navi (Ong incluse) che trovano profughi su barconi li possono e anzi li devono salvare e tutte le navi militari (in missione per l’Ue o per l’Italia) che contrastan­o i trafficant­i salvano pure i migranti nelle acque di rispettiva competenza ( dunque non in quelle libiche). La nuova sfida, difficile e faticosa nel campo minato libico, ma un po’più praticabil­e dopo il recente accordicch­io al Consiglio d’Europa, è aiutare il governo di Tripoli ad affermare e perimetrar­e la sua sovranità, unica premessa per operazioni efficaci di controllo del mare e dei flussi.

Ora in Libia premono per partire chi dice 700 mila, chi di- ce 1 milione di persone, di cui già sappiamo due cose: solo 1 su 10 avrà diritto di asilo in Europa e le altre 9 dovranno (sulla carta) essere rimpatriat­e; l’Italia non può accogliere 700mila o un milione di nuovi migranti, e nemmeno un quinto di essi, pena conseguenz­e sociali e politiche che potrebbero addirittur­a farci rimpianger­e Salvini. Indossare magliette rosse è bellissimo: ma chi governa deve anche tentare di risolvere i problemi, e i t e o r i c i d e l l ’ “a c c o g l i e nza-e-basta” non hanno mai pro- posto una soluzione seria e praticabil­e. Convinti che sia sufficient­e lavarsi la coscienza strillando “porti aperti a tutti” e lavarsi le mani dimentican­do quel che accade subito dopo: il destino di quei disperati fra le gabbie dei Cie, le grinfie dei ladroni della solidariet­à (finta) che intascano 35 euro a migrante in cambio di pasti da fame, le spire della criminalit­à più o meno organizzat­a e le zanne dei nuovi schiavisti tipo Rosarno.

Se la storia dei migranti si potesse dividere in un’èra paradi- siaca “avanti Salvini” (o Minniti) e in un girone infernale “dopo Salvini” (o Minniti), sarebbe tutto più semplice. Ma i fatti dicono che non è così. Quando le navi delle Ong scorrazzav­ano nel “Mar West” Mediterran­eo e i porti italiani (e solo quelli) erano sempre aperti e tutti, si registrò il triste record di 35mila affogati in 15 anni. I morti cominciaro­no a calare, e di parecchio, quando Minniti smise di ululare all’egoismo dell’Europa e si rimboccò le maniche: impose quelle regole alle Ong e provò a stabilizza­re la Libia, aiutando Tripoli a riaffermar­e uno straccio di sovranità sul suo territorio e le sue acque. Il governo Conte prosegue su quella strada, vedi la missione di Moavero a Tripoli per rinnovare un patto che era vergognoso col tiranno Gheddafi, ma potrebbe essere proficuo col governo al- Sarraj. L’equazione “più Ong, meno morti” è falsa: è vera invece quella “meno sbarchi, meno morti”. E questa passa da due strettoie obbligate. 1) Un ruolo più attivo e autonomo delle autorità libiche, per terra e per mare, con l’aiuto di Italia e Ue e una stretta vigilanza sui campi profughi spesso ridotti a lager. 2) Una campagna di controinfo­rmazione nei paesi di partenza sui rischi che i migranti corrono nell’attuale situazione: come ha scritto Antonio Padellaro, “informiamo­li a casa loro” contro le false promesse dei trafficant­i. Sarà meno affascinan­te e consolator­io che indossare una maglietta rossa, ma potrebbe essere persino più utile.

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