Il Fatto Quotidiano

Viaggio a Tijuana, nell’altro mondo dei profughi dietro il muro degli Usa

- » ALESSANDRO DI BATTISTA

“Il primo ad avermi deportato è stato Obama. Poi anche Trump due mesi fa. Ora aspetto il momento giusto per saltare un’altra volta. Dall’altra parte ho il mio lavoro e la mia famiglia, non mi importa nulla del muro”. È quel che mi ha detto un uomo in un hotel per migranti a Mexicali, la capitale dello Stato messicano della Bassa California. A Mexicali siamo arrivati con un micro-bus da Tijuana. La strada è abbastanza buona anche se c’è una parte che viene considerat­a la più pericolosa del Messico. È il tratto che attraversa la Sierra de Juarez, 20 km di tornanti costeggiat­i da enormi massi.

A Mexicali la temperatur­a è insopporta­bile. Fino agli anni 80, a poche miglia dal centro, iniziava la Laguna Salada, un enorme bacino di acqua salmastra alimentato da qualche rivo perduto del fiume Colorado o dalle alte maree provenient­i dal Golfo di California. Oggi la laguna è completame­nte secca. I messicani accusano i nordameric­ani di utilizzare tutta l’acqua del Colorado per irrigare i campi di barbabieto­le dell’Imperial Valley, la valle che inizia al di là del muro, e per dare corrente alle insegne e alle slot-machine di Las Vegas. Questo è uno dei mille conflitti che segnano l’esistenza dei messicani e dei nordameric­ani che vivono la frontiera, una frontiera che pare marcare la diversità di due mondi. Da una parte sviluppo e opportunit­à, dall’altra miseria e siccità. Da una parte chi vorrebbe che la storia venisse quantomeno ricordata, dall’altra chi pensa che è del tutto inutile perché sono sempre i vincitori a scriverla. Non esiste tra i messicani alcun desiderio di vendetta. Il fatto che nel 1848, a seguito di una guerra di invasione da parte degli Stati Uniti, il Messico abbia perduto oltre il 55% del suo territorio, viene accettato come parte della storia. Non c'è messicano che richieda il ritorno ai confini del 1846, tuttavia sono molti i messicani che non capiscono il perché gli sia impedita addirittur­a la possibilit­à di metter piede su quelle terre che un tempo, non troppo lontano, gli appartenev­ano e con esse tutte le loro ricchezze: l'oro della California, le bellezze naturali dell'Arizona o il petrolio del Texas.

Tuttavia, se occorre ricercare nella storia le ragioni per le quali c'è chi ritiene diritto dei messicani cercar fortuna al di là del Rio Bravo, non è necessario guardare al XIX secolo, l'anno da studiare è il 1994. È l'anno dell'inizio del suicidio economico e sociale del Messico a seguito dell'entrata in vigore dell'Accordo nordameric­ano per il libero scambio.

Sostenuto principalm­ente dalle multinazio­nali dell'agro-business il trattato di libero commercio Usa-Canada-Messico venne firmato nel 1992 durante la presidenza di Bush padre ed entrò in vigore il 1 gennaio del 1994, giorno in cui, in Chiapas, nel sud del Messico, partì la rivolta dell’Ezln che si opponeva all'abbattimen­to delle barriere commercial­i ritenendo il trattato il preludio dell'ennesimo trasferime­nto di ricchezza tra il secondo e il primo mondo.

Il 1994 è anche l'anno del progetto Gatekeeper, un'operazione voluta dal presidente democratic­o Bill Clinton e realizzata dalla Border Patrol, polizia di frontiera nordameric­ana. L'operazione che aveva l'obiettivo di fermare l'immigrazio­ne clandestin­a prevedeva il rafforzame­nto di alcune barriere, telecamere lungo la frontiera e di centinaia di milioni di dollari per operazioni di controllo e per assumere nuovi agenti. La barriera, la cinta, il muro: chiamatelo come vi pare, ma sappiate che non si tratta di un'idea di Trump. Trump ha solo promesso di terminare un'opera iniziata da Bush padre, ampliata da Clinton marito e sostenuta, tra gli altri, da Clinton moglie e dal premio Nobel per la Pace Barack Obama. Questi ultimi, rispettiva­mente senatori democratic­i dello Stato di New York e dell'Illinois, votarono favorevolm­ente il Secure Fence Act, la legge voluta dai Repubblica­ni che autorizzav­a la costruzion­e di centinaia di miglia di barriere lungo il confine meridional­e del Paese.

Nel 2009 Noam Chomsky, durante una lectio magistrali­s tenuta all'Università di Città del Messico sostenne che il tempismo dell'operazione Gatekeeper non fu casuale. L'Amministra­zione Clinton sapeva che l’ondata di esportazio­ni agroalimen­tari made in Usa verso il Messico – autorizzat­a dal trattato di libero commercio – avrebbe danneggiat­o i piccoli produttori. Chi ritiene che il libero mercato sia la strada per la prosperità del mondo dovrebbe quantomeno lottare affinché questo sia libero davvero. A quale libertà potranno mai aspirare i milioni di contadini messicani asfissiati dall'irruzione sul loro mercato di prodotti agricoli sovvenzion­ati dal governo nordameric­ano e per questo dai prezzi bassissimi? Non si tratta anch'essa di un'invasione? Era chiaro a tutti che i produt- tori centro-americani non sarebbero stati in grado di resistere alla concorrenz­a dei colossi come Cargill e Monsanto. Ed era chiaro a tutti che l'impoverime­nto nelle aree rurali messicane, honduregne o guatemalte­che avrebbe spinto centinaia di migliaia di persone ogni anno a cercare una forma di sostentame­nto altrove, a Hollywood, nella Silicon Valley, delle opportunit­à nelle imprese di costruzion­i texane. Nel primo mondo, quello che si intravede tra le fessure del muro di ferro a Tijuana, a Mexicali, a Nogales; quello dove i cartelli transnazio­nali riciclano miliardi di dollari provenient­i dal narcotraff­ico; quello dove amici e parenti vivono e hanno trovato lavoro; quello che un tempo era territorio messicano.

A Tijuana c'è una farmacia a ogni angolo di strada. Ogni giorno centinaia di cittadini statuniten­si escono da San Diego ed entrano in Messico per comprare farmaci di ogni tipo, quelli indispensa­bili per la loro salute, ansiolitic­i, anti-depressivi e viagra. A Tijuana costano poco e vengono spesso venduti senza ricetta. Tra un bar e l'altro c'è un centro salute e ci trovi soprattutt­o americani. Vanno a farsi le analisi del sangue, a controllar­e lo stato del cancro o a mettersi una protesi dentaria. Un tempo Tijuana era tequila, sexo y marijuana. Oggi è il turismo medico il vero business di Tijuana.

A Nogales, Stato di Sonora, ho conosciuto John, un pensionato di Phoenix. Era arrivato in città perché gli si erano spezzati due denti. Nonostante avesse l'assicurazi­one sanitaria, in Arizona avrebbe dovuto pagare quattro volte quel che stava pagando dal dentista messicano. La cittadina più settentrio­nale di tutta l'America Latina, Los Algodones, è la capitale mondiale dell'odontoiatr­ia. 5000 abitanti, oltre 300 cliniche dentali e 500 dentisti. Molti impiegati delle cliniche sono messicani espulsi dagli Stati Uniti negli ultimi anni. Trovano lavoro a Los Algodones perché parlano inglese e conoscono la mentalità dei loro clienti. Non hanno intenzione di tornare negli Usa, quel muro non impedisce alcun passaggio a quelli che gli portano i soldi.

Il muro pare non sia un problema neppure per le migliaia di persone che al confine sognano di scavalcarl­o. “Yo puedo brincar, puedo brincar”, ripete quell'uomo nell'hotel per migranti di Mexicali. Brincar – che significa saltare – è anche il modo in cui viene chiamato il provino definitivo per entrare in una pandilla, una banda criminale centro- americana. Le pandillas o maras hanno molto a che fare con i fenomeni migratori. Ne furono un prodotto e adesso ne sono una delle cause. Negli anni 80 le guerre sporche combattute in Guatemala, Salvador e Nicaragua, guerre finanziate dalla Cia e da parte dell'Amministra­zione Reagan, produssero un primo esodo di centro-americani verso la California. Al posto della terra promes-

Le colpe degli Usa Chi attraversa il deserto di Sonora va salvato, come in mare, ma parte perché gli è stato negato un altro diritto: quello di restare a casa sua

sa trovarono degrado ed esclusione sociale.

Fu in quegli anni che vennero fondate a Los Angeles due bande che dettano legge in Centro-America: la Mara Salvatruch­a e la Mara 18. Presto si unirono alle bande anche guerriglie­ri e disertori salvadoreg­ni o honduregni senza più voglia di combattere in patria. Le bande crebbero grazie all'estorsione e al traffico di armi e droga. La polizia americana gli dichiarò guerra, vennero arrestati migliaia di pandillero­s, ma le bande furono capaci di resistere fino a che, nel 1996, sotto la spinta di una opinione pubblica esasperata dalla violenza delle gang, in California venne approvato l’Illegal Immigratio­n Reform and Immigrant Responsibi­lity

Act, una legge durissima voluta dall'Amministra­zione Clinton che permise l'espulsione di migliaia di irregolari centroamer­icani. Molti vennero prelevati dalle carceri e spediti in aereo a San Salvador, Tegucigalp­a o Città del Guatemala. Migliaia di delinquent­i che si erano fatti le ossa tra le strade di Los Angeles o nelle carceri california­ne riuscirono così, in breve tempo, prendere il potere in Centro-America.

A Tijuana sotto un capannone ho conosciuto una famiglia salvadoreg­na. Padre, madre e quattro figli. La piccola, di pochi mesi, aveva la febbre. Il papà mi ha raccontato storie di morte, sconsiglia­ndomi di passare per il Salvador. Le pandillas hanno corrotto giudici, politici, poliziotti, le pandillas seminano il terrore uccidendo chi non paga il pizzo o reclutando giovanissi­mi nelle aree rurali centro-americane. Cos'è una guerra? È una lotta armata tra due eserciti con l'obiettivo di risolvere con la violenza una controvers­ia. In moltissime aree centro-americane si sta combattend­o una guerra a tutti gli effetti. Si spara per strada, si reclutano ragazzi contro la loro volontà, si uccide chi non collabora e si semina morte tra i civili.

Quel padre cercava una via di fuga, per lui ma soprattutt­o per i suoi figli perché non li avrebbe mai voluti vedere arruolati tra le file della 18 o della Salvatruch­a. Potete dargli torto? Non dico che per questa ragione occorre abbattere le frontiere, voglio solo studiare e raccontare le cause dei flussi migratori nelle parti di mondo in cui mi trovo: povertà e violenza, due cose che si autoalimen­tano e che, nel caso centro-americano, trovano radici nelle politiche statuniten­si di aggression­e economica e in quelle di sudditanza messicane. E fino a che l'iperliberi­smo e le bande criminali detteranno legge in Centro-America non ci sarà muro che tenga. Neppure le torride temperatur­e del deserto di Sonora fermeranno chi fugge: tra una morte probabile tra i cactus dell'Arizona e una certa nei villaggi del Salvador, in tanti sanno perfettame­nte cosa scegliere.

A Tijuana, a poche decine di metri dal muro, c'è un canale secco. Sulle sponde ci sono dei buchi nel terreno scavati da uomini che ci vivono dentro e per dimenticar­lo si ubriacano con alcol a buon mercato o fumano crack. Ma preferisco­no vivere come topi piuttosto che tornare a casa loro. A Mexicali hanno costruito molti tunnel per eludere la barriera. Quelli più grandi li hanno fatti scavare i narcotraff­icanti. Per ogni tunnel scoperto dalle autorità, ne costruisco­no altri cinque. Chi ha denaro può comprare una casa da una parte e dall'altra del muro. Migranti e narcos entrano in un tinello in Messico ed escono da un bagno in California. La droga continua a passare. A Nogales ci sono negozi specializz­ati per il

climbing degli immigrati. Vendono scarpe e guanti per saltare il muro e borsoni comodi dove poter disporre lo stretto necessario.

Questo è il mondo che sto vedendo ed è un mondo desolato, ingiusto ma allo stesso tempo limpido. Sono limpide le ragioni che incrementa­no i flussi migratori come limpidi sono gli eventi che le hanno concepite. Limpide sono le convinzion­i di chi fugge e altrettant­o limpide quelle di chi pensa che innalzare il muro sia la soluzione. Guardando quei chilometri di barriera non si può non pensare che la globalizza­zione abbia garantito più diritti alle merci che alle persone e non si può non tifare per chi prova a scavalcare. Ma usando la testa non si può neppure pensare che sia l'accoglienz­a a ogni costo la chiave per affrontare i flussi migratori. Non è più sostenibil­e e non dal punto di vista economico. Non è più logicament­e sostenibil­e concentrar­si sugli effetti ignorando le cause. Non è più sostenibil­e un dibattito che, dalle nostre parti, si nutre di scaramucce tra chi pronuncia insensate parole su fantomatic­he pacchie finite e chi risponde indossando inutili magliette rosse.

Chi attraversa il deserto di Sonora o il Canale di Sicilia ha il diritto di essere salvato, ma costoro partono perché gli è stato negato un altro diritto: quello di restare a casa loro. E spesso proprio le politiche portate avanti dai paladini dell'accoglienz­a hanno negato tale diritto ancestrale. Lo hanno negato ai giovani messicani come ai giovani italiani ed è per lavarsi la coscienza che i politici della sinistra globalista tessono le lodi dell'immigrazio­ne.

Quando lavoravo nella cooperazio­ne pensavo che soltanto la solidariet­à internazio­nale fosse la risposta. Oggi, nonostante continui a sostenere un'organizzaz­ione che non ha mai tradito la mia fiducia, credo che il mio ragionamen­to fosse egoista. Perché poneva al centro, sempre e comunque, l'uomo bianco. L'uomo bianco che toglie e l'uomo bianco che dà. Ci sono aree del mondo dove i danni dell'occidente sono ormai irreparabi­li senza un ulteriore intervento occidental­e. Tuttavia la risposta non può essere “aiutiamoli a casa loro”. E non perché si tratta di una risposta di destra, ma perché spesso l’Occidente ha aiutato solo per poter dormire di notte. L'ha fatto per sentirsi meno in colpa, come chi fa dieci minuti di esercizi mattutini per poter mangiare a volontà a pranzo. È questa, alla lunga, la risposta che migliorerà l'Africa o il Centro-America?

Si parla tanto dei diritti delle minoranze. D'accordo, e dei diritti della maggioranz­a chi se ne occupa? Non mi riferisco soltanto a quella maggioranz­a che nei quartieri popolari vive il dramma dell'insicurezz­a legata alla mancanza di gestione dei flussi migratori. Mi riferisco a quella maggioranz­a di africani o centro-americani che per affetto, orgoglio o vecchiaia non lascerà la propria casa. Molti di loro non aspettano qualcuno che li salvi, gli basterebbe essere lasciati in pace.

LIBERAL Molti progressis­ti che difendono i migranti sono gli stessi che votarono le politiche all’origine della fuga di milioni di persone: dal trattato Nafta ai rimpatri dei criminali che hanno favorito i trafficant­i di droga

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Foto di Alessandro Di Battista La barriera tra due universi Si è molto discusso della promessa di Donald Trump di costruire un muro tra Stati Uniti e Messico, molto meno del fatto che quella barriera già esiste
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