Il Fatto Quotidiano

Torino dopo Marchionne teme di restare senz’auto

Il manager in coma, la città s’ interroga

- » ETTORE BOFFANO

Nella domenica di fine luglio, e nel caldo appena mitigato dai temporali, Torino parla della “disgrazia di Marchionne” soprattutt­o nei dehor dei bar di piazza San Carlo o davanti alle poche edicole aperte dove, ieri alle 11, i principali giornali - una volta tanto - erano già esauriti. “Disgrazia” è tradotto direttamen­te dal dialetto, e sta per tragedia: quella di Sergio Marchionne, l’ad venuto dalla Svizzera e dal Canadà ma che, in quei primi mesi del 2004, era ancora possibile incontrare proprio sotto i portici di via Roma; per un caffè o a far riparare gli occhiali in un negozio di ottica.

“Ecco, se su Marchionne si vogliono evitare ipocrisie e retorica, bisogna partire proprio dai suoi primi anni alla Fiat. Non c’è dubbio che sono esistiti due Marchionne: il primo che, per salvare la Fiat, si è aggrappato all’Italia e a Torino, e poi un secondo che ha condotto un’operazione di migrazione in altri lidi. La famiglia Agnelli dovrebbe innalzargl­i un monumento, ma l’Italia è stata spogliata della Fiat”. Giorgio Airaudo, ex segretario della Fiom piemontese ed ex deputato di Sel, per un tempo breve e segnato dalle malinconie della sconfitta, è stato l’antagonist­a del manager che indossava il maglione, nell’ultimo scorcio di lotta di classe nella città che era stata di Gramsci, di Valletta, di Gianni Agnelli, di Diego Novelli e della “marcia dei 40mila”. “Vero: la sconfitta nel referendum di Mirafiori del 2011, quando il 54% dei lavoratori disse sì all’accordo separato che aveva messo fuori noi della Fiom”.

Messi fuori sul serio, come documentar­ono le foto del piccolo trasloco che portava via, da una delle uscite laterali di Mirafiori, gli arredi della rappresent­anza interna dei metalmecca­nici della Cgil, compreso un grande ritratto di Lenin. “Ma sino al 2008, c’era stata un’altra recita. Un giorno d’estate del 2005, Marchionne mi chiamò: ‘Dobbiamo vederci, la mando a prendere a Caselle, con un aereo della Fiat’. Mi misi a ridere e gli spiegai che non lo avrei ma fatto. Alla fine ci in- contrammo nella villa di un funzionari­o Fiat nel Monferrato. Fu nettissimo: ‘Adesso io devo pensare a litigare con le banche e con la General Motors. Per il resto sto con Torino e con l’Italia’. Nel 2008, però, cambiò tutto. Prima si rivolse alla Merkel per l’Opel, poi grazie a Obama decollò l’operazione Chrysler. Mi fa sorridere leggere su La Stampa, il giornale della famiglia, che aveva scelto l’ind ipendenza dalla politica: da quella italiana, che credo disprezzas­se, ma non da quella internazio­nale. E la politica italiana e torinese lo ha lasciato fare: Marchionne non ha mai avuto un contrappes­o”.

È DAVVERO COSÌ? È questo il sentimento dei torinesi che sabato mattina, all’improvviso, hanno scoperto che la succession­e a Marchionne non era una cronaca più o meno annunciata, ma un’altra “disgrazia” di quella maledizion­e Fiat che, per la prima volta, non aveva scelto un membro della Famiglia ma un manager, anzi: il primo dei suoi manager?

Per capirlo sino in fondo, forse bisogna riandare con la memoria ai lutti che, nella saga degli Agnelli, si sono succeduti a cavallo tra la fine del Nove- cento e il nuovo secolo, mentre la gente avvertiva che la “sua” fabbrica, la Feroce, dello scontro tra il capitale e il lavoro, rischiava di fallire: Giovannino e poi suo padre Umberto, con in mezzo l’Avvocato e quella lunga e ininterrot­ta coda di visitatori alla camera ardente. “C’è qualcosa di cui non si tiene conto quando si fa il bilancio dei rapporti tra la Torino di oggi e ciò che adesso si chiama Fca. Vogliamo chiamarlo cuore, anima? Ecco, io credo che tutto questo rimarrà ancora qui, in riva al Po”. Valerio Ca- stronovo, storico dell’Economia, alla narrazione della Fiat ha dedicato la vita, incrociand­o anche le altre dinastie dell’imprendito­ria subalpina: gli Olivetti, i De Benedetti. “La famiglia non ha venduto i gioielli che la legano al Piemonte e all’Italia, anzi: la Juventus, La Stampa, la Ferrari. E ha mantenuto intatte le sue tradizioni: c’è un capo, John Elkann, che ha in mano la gestione del patrimonio e la rappresent­anza e ci sono gli altri uniti attorno a lui. Infine c’è Torino, una città che non smette di essere innovativa, eccentrica, che sperimenta. Ci si interroga sulle capacità di chi sostituirà Marchionne: ma possiamo soltanto aspettare. Lui è stato un manager che, forse, trova un precedente solo in Vittorio Valletta: entrambi assolutame­nte padroni della gestione, ma altrettant­o leali nei confronti degli azionisti. Con Romiti era diverso: fu scelto da Enrico Cuccia”.

La replica di Airaudo è fatta di numeri e di consideraz­ioni. “Il problema non è l’arrivo di Mike Manley, il manager della Jeep, ormai statuniten­se più che inglese. Torino da lui non ha più nulla da temere, perché tutto è già accaduto. E proprio con Marchionne e a partire dal quel 2008. In Italia ormai Fca fa solo un modello: la Fiat 500; a Torino hanno trasferito alla ex Bertone, ora Maserati, 1500 lavoratori per poterli ricollocar­e in cassa integrazio­ne, la produzione che doveva sostituire la Mito a Mirafiori non si vede, e le 400mila vetture dell’Alfa Romeo, il cardine dei piani di Marchionne, sono lontanissi­me. Questo preoccupa di più: resta una grande incompiuta, una grande promessa mancata e le paure sono tante. Un tempo nella parola Fiat c’erano la fabbrica, l’Italia, le auto e Torino. Oggi nella Fca l’Italia e Torino sono scomparse”.

CERCARE UN VERDETTO o un giudice, tra Airaudo e Castronovo, non è facile. Una possibilit­à è quella di spostarsi in Piazza Vittorio Veneto, l’altra grande area della Torino dei Savoia, dove abita Se rgio Chiamparin­o, oggi governator­e del Piemonte, ma per dieci anni sindaco della città. Con Marchionne giocava a scopone, condividev­a rispetto e una sorta di amicizia, ha firmato gli accordi sul riutilizzo di una parte di Mirafiori e lo appoggiò (lui che veniva dal Pci) nei giorni del referendum contro la Fiom. Da 48 ore sta riflettend­o anche lui sulla “disgrazia di Marchionne”, usa la prudenza e rifiuta la presunzion­e delle sentenze: “Non c’è dubbio, e in questo Airaudo ha ragione: il baricentro non è più qui ma altrove. È vero, cambiò tutto con la crisi mondiale del 2008, ma la politica di Obama per il rilancio dell’auto ci fu, in Italia no. Negli Usa era certo tutto più facile, ma i governi italiani non aiutarono Marchionne. L’inglese che arriva? Vedremo, gli uomini contano, ma anche le vocazioni. Il settore automotive nell’area torinese conta ancora 100mila occupati. È il famoso indotto, che ha bisogno della produzione di alta gamma di Fca come pivot per l’intero comparto produttivo. Un anno fa abbiamo firmato un accordo di programma con il governo per oltre 100 milioni di investimen­ti per la ricerca su guida autonoma, ibrido ed elettrico. Basterà? Ci sono dei ritardi, ma credo che ciò che Marchionne voleva continuerà: da questo punto rimane sempre più Fca a Torino di quanta non ce ne sia legalmente ad Amsterdam o fiscalment­e a Londra”.

SOSTIENE GIORGIO AIRAUDO

Sono esistiti due Marchionne: il primo si è aggrappato all’Italia e a Torino, il secondo invece è migrato in altri lidi

LA VERSIONE DI VALERIO CASTRONOVO

Il cuore del gruppo rimarrà sul Po: gli Agnelli non hanno venduto i gioielli “italiani”, dalla Juventus alla Ferrari

Cambiò tutto con la crisi del 2008: negli Usa Obama fece una politica per il rilancio dell’auto, in Italia no: i governi qui non aiutarono Marchionne

SERGIO CHIAMPARIN­O

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Ansa/LaPresse Sergio Marchionne in un’immagine del 2014. Sopra l’ingresso dello stabilimen­to Mirafiori a Torino

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