SE L’ILVA MIGLIORA, POVERO CALENDA
Immaginiamo che in queste ore l’ex ministro per lo Sviluppo economico Carlo Calenda sia inginocchiato da qualche parte davanti a un’immagine di Tommaso Moro, il grande umanista inglese proclamato santo da papa Pio XI e poi scelto nel 2000 come patrono dei politici da papa Giovanni Paolo II. Se
San Tommaso Moro farà la grazia, Calenda, l’aspirante rifondatore del Pd, riuscirà a sopravvivere politicamente al caso Ilva. Se invece le cose andranno come paiono andare oggi e davvero, come ha annunciato, il colosso dell’acciaio ArcelorMittal migliorerà la sua proposta sul “contratto di acquisto e di affitto” dell’Ilva spingendo così il nuovo ministro Luigi Di Maio e i sindacati ad accettarla, per Calenda la storia degli stabilimenti di Taranto segnerà una prematura scomparsa dalla scena pubblica italiana.
È ancora presto per dire come si chiuderà la partita. Di Maio si è riservato di decidere e i contorni esatti della nuova offerta non sono noti. Ieri il ministro pentastellato si è limitato a dire che “ci sono passi avanti sul piano ambientale, mentre sul piano occupazione (10.100 posti di lavoro assicurati contro i 13.700 attuali ndr) siamo ancora in una situazione non soddisfacente”. Insomma, vedremo.
QUELLO CHE PERÒ è finora accaduto basta per esprimere un giudizio sull’operato di Calenda, forse non come ministro (il suo piano sull’industria 4.0 è stato per esempio buono), ma almeno come politico da grandi trattative industriali. Il documento che deve spingerci a una riflessione è datato 10 maggio ed è ancora pubblicato sul sito internet del ministro. È un comunicato stampa con cui Calenda, piccato perché i sindacati avevano detto no alla sua idea di ricollocamento di circa 3800 operai giudicati allora in esubero, assicura che quella di ArcelorMittal era la migliore tra tutte le offerte possibili. “Il governo, si legge, “ritiene di aver messo in campo ogni possibile azione e strumento per salvaguardare l’occupazione, gli investimenti ambientali e produttivi”.
Alla luce della nuova proposta, l’affermazione appare quantomeno ottimistica. A Di Maio è bastato chiedere all’Anac se a suo parere la gara che aveva assegnato Ilva alla multinazionale fosse stata regolare per riaprire i giochi. Il resto lo ha fatto la paura di Arcelor di perdere l’affare, visto che per l’Anticorruzione la procedura seguita nell’assegnazione era claudicante e che per questo il nuovo governo avrebbe persino potuto far saltare tutto.
Un parere che ha mandato Calenda su tutte le furie e che lo ha spinto (fatto inusuale) a telefonare al numero uno di Anac, Raffaele Cantone, per lamentarsi. Noi non sappiamo come siano andate le cose durante la gara. Siamo però felici che ora arrivino proposte migliorative. Ma dobbiamo pure constatare che, vista da fuori, la vittoria di ArcelorMittal ha l’aria di essere stata una classica operazione di sistema.
Con gli anglo-indiani correva, infatti, pure il gruppo di Emma Marcegaglia, molto indebitato con Banca Intesa. Tutti gli esperti dicevano che in caso di vittoria l’Antitrust avrebbe costretto Marcegaglia a cedere le sue quote. Così è stato. Ora, secondo i giornali, è probabile che parte delle azioni finiscano a Intesa per estinguere il debito, mentre Marcegalia conserverà un accordo con AccelorMittal per acquistare acciaio a un ottimo prezzo. Tutto insomma dopo la procedura di Calenda sembrava perfetto. Tranne che per un particolare. Sulle garanzie ambientali e occupazionali si poteva e si doveva fare di più.